PERCHÉ LE DONNE NON VINCONO IL PREMIO STREGA? – ALMARINA Valeria Perrella 

Perché le donne non vincono il premio Strega'

PERCHÉ LE DONNE NON VINCONO IL PREMIO STREGA? – ALMARINA, di Valeria Perrella

«Nisida è un’isola e nessuno lo sa» canta Edoardo Bennato, «l’emblema di tutto quello che non si sa» dice in un’intervista. Nisida è il luogo dove sorge un carcere minorile, dove Valeria Parrella ambienta il suo romanzo. Il luogo dell’incontro, dove le due protagoniste si scoprono e si amano come solo una madre e una figlia sanno farlo. “Almarina” è un’adolescente romena, finita in prigione per piccoli crimini di sopravvivenza, dopo aver subito violenze paterne, visto morire la madre, e essere stata separata dal fratellino.

 

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Elisabetta Maiorano, vedova, cinquantenne, insegnante di matematica ha scelto il carcere minorile per esercitare la professione, dopo la morte tragica del marito. Ci sono separazioni che si snodano nel tempo e nella geografia. Nel tempo Elisabetta è separata dal marito, nello spazio quando è in carcere è separata dalla società. Dallo Stato. Dal noi che formiamo questa società e questo stato.

 

 

Questa separazione è ancor più forte perché quando entri in un carcere ti tolgono tutto, anche il cellulare. «Perché insegno nel carcere minorile di Nisida, e il mio cellulare squilla nella cassetta di sicurezza all’ingresso, dove il regolamento vuole che stia. Ognuno di noi stava dove doveva stare, ma intanto il corpo di mio marito con il cuore scoppiato nel petto era stato portato dal marciapiedi all’ambulanza, dall’ambulanza al pronto soccorso.

Napoli è una città che ci sa fare con la morte, le dà il giusto peso, che è quello della vita: cioè, preso individualmente, poco più di nulla.» (p. 6) L’atroce presente di solitudine (per Elisabetta) rimane fuori dal carcere, dove, fra l’altro, la gente giudica chi sta dentro. Dove dentro non si sa cosa accade fuori e nemmeno si vuole sapere perché per questi giovani incarcerati, spesso il fuori è la morte. Il futuro per loro non esiste. Valeria Parrella conosce bene la realtà del carcere minorile perché vi ha fatto volontariato, insegnando scrittura creativa.

 

 

La sua esperienza la racconta in una presentazione di “Almarina” a Torino. Aveva scelto il genere epistolare perché pensava fosse quello più facile. Ed era sicura che i suoi giovani allievi avrebbero scritto lettere stupende. Invece si sbagliava. Avevano scritto lettere bruttissime. S’interroga sulla motivazione e le viene in mente di dare loro degli spunti. Porta in carcere “Le lettere di Gramsci” e fa vedere loro come lui da dentro s’immaginava il fuori e le persone amate fuori.

Questa è letteratura. Questo è il motivo perché le lettere di Gramsci si leggono ancora. Le lettere scritte successivamente, grazie a Gramsci, furono bellissime. Non a caso prima di iniziare a leggere il romanzo, il lettore legge in epigrafe, una frase di Gramsci: «E io ti darò notizie di una rosa che ho piantato e di una lucertola che voglio educare». Come se le rose e le lucertole potessero cambiare il loro destino. Certo che no, ma l’immaginazione aiuta a scombinare il tempo nell’isola di detenzione. E qui l’autrice vuole anche urlare ai benpensanti che è proprio solo il presente dei detenuti che dobbiamo aver in mente. Il passato non conta. Quello che hanno fatto prima non ha più importanza. Nel mezzo ci siamo noi. La società. Lo stato. Noi. Ma grosse mura separano il presente del fuori e del dentro. Che poi è un dentro e un fuori anche dal proprio io e dalle proprie cose intime.

 

 

La scrittura scorre liscia in un flusso di coscienza che trasporta il lettore nelle pagine e viceversa… come se il pensiero non avesse frontiere e si facesse trasportare dalle parole per giungere libero da una testa all’altra. Quella della scrittrice e quella del lettore. Vorrei scrivere lettrice, perché secondo me, che sono donna, fa la differenza. Ma lascio lettore per includere tutti senza distinzioni.

 

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E qui va introdotto il triste pensiero che al Premio Strega il pensiero donna è ancora alieno. Di difficile interpretazione: vincono gli uomini. Finalisti, sono sempre i più numerosi. Perché Parrella con “Almarina” finalista non ha raggiunto il traguardo. Per un fluire che forse non parla a chi ancora non sa decodificare il difficile intricato universo donna. Proprio perché consapevole di questo compito arduo, nel romanzo, la protagonista sceglie di interrompere la comunicazione ed è ben grata alle regole del carcere che la isolano e la distolgono dal compito delle risposte: «e io non rispondevo, come non risponderò alla maggior parte delle chiamate fondamentali dell’esistenza» (p. 6).

 

 

Fra queste, ci sono le chiamate delle “cesse” delle sue cognate. Inizialmente il termine mi ha infastidita, ma alla seconda volta che nella lettura lo trovo, capisco. In questo termine, c’è scritto tutto il negativo che – attraverso gli occhi della protagonista – l’autrice esprime nei confronti dei rapporti finti familiari, sociali, basati sul niente e sull’ipocrisia. Perché Valeria Parrella sa scrivere, non solo: le servono poche parole per esprime un grumo di concetti, di spunti di riflessione che butta lì lasciando al lettore il compito di dipanarlo. Se ne ha voglia. Ma forse è il lettore che non sa leggere. E dipanare.

È che si diventa sempre più pigri. La lettura deve fare entertainment. Non deve far riflettere. Non deve portarci a mettere in discussione le nostre scelte. Invece è proprio quello che vuole fare l’autrice. Con l’Epilogo. Dove la sua scelta le cambia la vita. A lei e ad Almarina. Che l’affidamento è solo una pratica burocratica, fatta di fogli, tribunali, sentenze.

 

 

Ma l’incontro fra le due donne – fra la madre e la figlia – è avvenuto nei giorni di Natale, quando Almarina entra in casa di Elisabetta: «Noi in questi giorni: ci siamo messe lo smalto sulle unghie a vicenda; abbiamo mangiato due chili di frutti di mare sauté; abbiamo visto Angeli con la pistola sul divano, sedute a zigzag; le schiene contro i braccioli, le ginocchia piegate e i piedi che si incontravano al centro.» (p. 90) Questo dettaglio dei piedi che s’incontrano, delle posture a zig zag mi hanno fatto pensare al parto, ai cromosomi, alla nascita. Una mia amica, madre adottiva, mi spiegava che i bimbi in adozione devono in qualche modo vivere con la madre adottiva una specie di parto, per lei, di nascita per loro.

Ecco Almarina ed Elisabetta hanno vissuto quest’esperienza sul divano. Da allora si appartengono. Il resto è storia. Come finisce il romanzo? Con queste parole: «Almarina sta lì, proprio al centro» (p.123) Al centro del cerchio, al centro della vita. Dell’anima. Del mare. Del nome, Almarina, che racchiude l’anima, il mare. Entrambe le scelte e le prospettive future di madre e di figlia.

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO DAPPERTUTTO E SEMPRE E TU? di Sylvia Zanotto

 

Presente nelle 5 recensioni più cliccate ad Agosto 2020

 

 

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