OGGI AVREI PREFERITO NON INCONTRARMI Herta Müller

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OGGI AVREI PREFERITO NON INCONTRARMI, di Herta Müller

Prima di parlare del libro, vorrei spendere due parole, sull’associazione che porta avanti una campagna contro il razzismo e che è nata in seno al gruppo Feltrinelli e sostiene progetti editoriali che come in questo romanzo si schierano contro ogni abuso di potere.

 

OGGI AVREI PREFERITO NON INCONTRARMI Herta Müller

Nata il 21 marzo 2011 per contrastare il razzismo con gli strumenti della cultura, l’Associazione “Il razzismo è una brutta storia” lavora insieme a bambine e bambini, ragazze e ragazzi, associazioni, scuole, carceri e biblioteche con l’obiettivo di smontare gli stereotipi alla base di tutte le discriminazioni. Promuove incontri, sessioni nelle scuole, nelle biblioteche, nei luoghi istituzionali a livello nazionale ed europeo.

Credo che vada sottolineato l’impegno di chi veicola valori nei quali mi riconosco e che incontro attraverso la lettura. È bello quando leggere si trasforma da azione intima e privata in un qualcosa di condiviso con una collettività associazionistica come questa.

 

 

Successivamente come sempre amo sottolineare l’impegno di chi traduce, visto l’immenso lavoro che ciò comporta. La traduttrice Margherita Carbonaro, che di recente ha curato l’edizione di due opere lettoni comparse in Italia per Voland e Iperborea, ha qui reso un testo in tutta la sua bellezza poetica, dove ogni parola ha un peso e va letta almeno due volte per sentire tutto il suo carico.

“Oggi avrei preferito non incontrarmi”, arriva in Italia quattordici anni dopo la prima uscita in lingua originale. In un’intervista, la traduttrice ci dice che il libro della Müller «contiene quell’insensatezza, tutta kafkiana, della perdita di ogni logica nel rapporto tra l’uomo e un potere assoluto».

 

E continua: «L’impossibilità di comprendere la logica e il senso delle azioni e delle parole fanno dei potenti, dei Dittatori, dei mostri d’insensibilità capaci di azzerare qualsiasi parola e azione dei cittadini». Se Kafka innalza il padre a una sorta di Dio, e abbassa se stesso al punto di annientarsi, la protagonista del romanzo di Herta Müller non ha nemmeno nome. La donna che parla in “Oggi avrei preferito non incontrarmi” vive presumibilmente in una città della Romania di Ceausescu, lavora in una fabbrica che produce abiti che saranno esportati in Occidente, e subisce interrogatori da parte dei servizi segreti. «Vengo convocata sempre più spesso: martedì alle dieci in punto, sabato alle dieci in punto, mercoledì o lunedì. Come se gli anni fossero una settimana, mi stupisco che dopo la tarda estate già ritorni l’inverno».

 

 

Il suo torturatore è il maggiore Albu, che la convoca e la interroga, la costringe a mentire, mortificandola e umiliandola sia mentalmente che fisicamente: «Mi solleva la mano per le punte delle dita e mi schiaccia le unghie una sull’altra, tanto che potrei gridare. Con il labbro inferiore mi bacia le dita, quello superiore lo lascia libero per parlare».

Lei, la protagonista senza nome, ha un passato di soprusi, un matrimonio durato poco, un suocero che aveva cercato di violentarla, un padre amato, desiderato e poi perso, un uomo accanto a sé, Paul, schiavo dell’alcol, terrorizzato dalle numerose convocazioni di sua moglie.

 

È la paura assoluta, la paura del Padre / Dittatore, quella della condanna che non ha bisogno di esibire ragioni per abbattersi come una scure sul capo. Lei ha anche perso il lavoro, per colpa di un informatore vendicativo, che ha distribuito biglietti contro la dittatura, spacciandoli per biglietti scritti da lei. Il suo dolore maggiore è la morte di Lilli, la sua amica più cara, che aveva tentato di passare la frontiera al confine con l’Ungheria. Cercando un futuro oltre il confine, un soldato l’aveva colpita con uno sparo e la frontiera era rimasta lì, invalicabile.

Solo le merci, i vestiti che confezionavano ogni giorno dentro la fabbrica, possono andare nel mondo oltre la frontiera, portandosi sogni e speranze di chi li confeziona, di chi rimane. Per resistere bisogna dimezzarsi.

Senza concedere al Dittatore, di rubarci i pensieri, le proprie emozioni: «Da quando lascio a casa la mia felicità, il baciamano non mi paralizza più come prima». Dimenticarsi di voler essere felice, lasciare il desiderio altrove, e sperare di ritrovarlo al ritorno. Perché è lì che il Padre, il Dittatore, vogliono stare: nei propri pensieri, nei propri desideri.

A Paul il terrore arriva mentre dorme, la notte, senza che quasi ne abbia consapevolezza: «Nel sonno si allunga di traverso nel letto e si ritrae con un sussulto, così in fretta che senza svegliarsi si spaventa». Un romanzo ossessivo, evocativo, travolgente, che non dà tregua fino alla fine, ma c’è uno spiraglio per non impazzire: «Sarebbe meglio se fossero le cose stesse a starti nella testa, pronte ad afferrare, invece dei pensieri sui quali si rimugina senza fine.

Preferirei che il galoppino di Albu in persona stesse nella mia nuca invece della sua voce lieve che corrode ed è ancora in me dall’ultima volta. Soltanto cose solide che nella testa hanno bisogno unicamente del posto dove stanno. E negli interstizi resta spazio per la felicità».

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