MI TROVERAI NEL FUOCO, di Robert Lowry (Readerforblind – rfb – marzo 2024)
C’è sempre un “altrove”, lì fuori, da qualche parte, ad attendere qualcuno per condurlo via. Accade spesso, in molte delle storie ambientate su quel palcoscenico sconfinato chiamato Ohio.
C’è sempre un treno pronto a partire. O magari una corriera della gloriosa Greyhound, come quella resa immortale da Ivan Doig nel romanzo “L’ultima corriera per la saggezza” Nutrimenti: un compagno di viaggio affidabile, puntuale, fedele e rassicurante, con quelle fiancate a righe metalliche lungo le quali un levriero spicca il suo energico salto.
Molte di queste storie dell’Ohio iniziano con un arrivo (o un ritorno) e terminano con una partenza (o una fuga).
Come se l’Ohio fosse solo una fase, una terra di passaggio, una tappa.
Come se non potesse contenere che una parte delle vite che popolano le sue storie. Come se l’esito di queste storie non potesse essere che in quell’ “altrove”.
Con una partenza, con il fischio del treno che incede lento, poi sempre più veloce, lontano da questo teatro brulicante di storie, si chiude “Winesburg, Ohio” di Sherwood Anderson, che sarà un punto di riferimento saldo e irrinunciabile per una intera generazione di autori, da Hemingway a Faulkner, da Fitzgerald a Dos Passos.
Una sola voce, un solo narratore, a fare da collante a una moltitudine di storie da scrivere, di vite e testimonianze da raccogliere, prima di lasciare il palcoscenico, salire sul treno e dirigersi verso quell’ “altrove”.
Con un arrivo (o meglio, un ritorno) e con una nuova partenza, si apre e si chiude “Mi troverai nel fuoco” , romanzo del 1948 di Robert Lowry, appena pubblicato – con merito – da Readerforblind.
«Era l’inquietudine dell’innocenza e la sua innocenza era lontanissima da lui, a quel punto. Ovunque possa essere la mia casa, pensò, non è qui. È in fondo allo stradone, oltre quell’altura, al di là del cimitero».
È Jim Miller, reduce dalla campagna in Africa e Italia, che fa ritorno nella piccola cittadina di Doanville, Ohio. Il racconto dei giorni successivi al suo arrivo, è affidata con maestria da Lowry a un coro di voci, una polifonia.
Quattro punti di vista, quattro “soggettive” , quattro voci appunto (come nel magistrale “L’urlo e il furore” , ma senza la frammentazione e dilatazione temporale che contraddistingue il capolavoro di Faulkner), che talvolta riprendono un medesimo evento, un dialogo, per offrire al lettore una diversa angolazione da cui osservare.
Il racconto del ritorno del reduce e la serie di eventi da esso scaturiti (che ha un mirabile precedente in “La paga dei soldati”, esordio letterario dello stesso Faulkner, pubblicato in Italia da Adelphi Edizioni, e numerosi romanzi successivi, fra i quali spicca a mio avviso il lirico “Un nodo alla gola” di Robin Robertson, sorprendente romanzo in versi, pubblicato in Italia da Guanda Editore) inizia sotto il nefasto presagio della vecchia zia di Jim, Philena, ormai incapace di vedere intorno a sè nient’altro che la fine di tutto:
«No, no! Stammi a sentire, ascolta quello che devo dirti: tu raccoglierai quello che hai seminato. Sei andato via una volta, non hai mai voluto darmi retta. E ora guardati. Stammi a sentire. Se la gente ascoltasse non avrebbe tutti questi problemi, tutte queste guerre. C’è una cosa terribile che sta per accadere, un terribile fuoco brucerà i malvagi di questa terra. Aspetta e vedrai…».
Sotto questi auspici di morte e di fuoco, accadrà l’inevitabile: il caos inizierà ad avanzare, inesorabile, con il suo carico di ansie, di paure, di violenza. Un caos che avrà le forme e la potenza devastatrice di un incendio, un fuoco infernale che cancellerà le tracce di ogni possibile innocenza o redenzione, di ogni possibile salvezza. Un delitto cui segue un castigo infinito.
L’incendio doloso raccontato da Lowry è quanto di più diverso dall’incendio (vero) avvenuto nel 1944 a Cleveland, che fa da sfondo all’impresa eroica del piccolo Morris Bird III, Odisseo in miniatura in una epopea urbana, in uno dei più bei romanzi di Don Robertson, “Il più grande spettacolo del mondo”, pubblicato da Nutrimenti.
Un incendio, quello di Robertson, che somiglia più a un disastro naturale, non attribuibile direttamente alla mano dell’uomo; un evento carico di “pathos” e di “pietas” che rappresenterà il punto più alto nella formazione del piccolo Morris e nel suo cammino di iniziazione.
Molto più simile all’incendio di Lowry, altrettanto drammatico e carico di violenza, è quello in cui ci si imbatte fra le pagine di “Ohio”, esordio di Stephen Markley pubblicato in Italia nel 2020 da Einaudi. Un fuoco altamente simbolico, metafisico, che giunge a compimento di un progetto di vendetta.
Anche i protagonisti di “Ohio” sono quattro, come quattro sono i tempi del racconto, i punti di vista, le angolazioni attraverso cui ci è dato di guardare. Anche qui, un reduce, il giovane Rick Brinklan, torna nella sua città; vi fa però ritorno all’interno di una bara, dopo essere deceduto in Iraq.
«Difficile dire dove finisca questa storia o come sia cominciata, perché una delle cose che alla fine imparerete è che il concetto di ‘linearità’ non esiste. Esiste solo questo sogno collettivo scatenato, incasinato, incendiario in cui nasciamo, viaggiamo e moriamo tutti» scrive Markley in uno fra i più straordinari incipit nella recente letteratura americana.
Solo molto tempo dopo il funerale, quattro amici d’infanzia di Rick, che non hanno partecipato al rito funebre, faranno ritorno – in momenti diversi e per diverse ragioni – nella cittadina di New Canaan.
De-industrializzata e in declino economico, conservatrice e razzista, falcidiata dalla piaga della droga, la provincia dell’Ohio raccontata da Markley somiglia tanto a quella di “Ruggine Americana” (anche se il romanzo di Meyer in realtà è ambientato a Buell, Pennsylvania) quanto alla piccolissima Barnesville, Ohio di “Lady Chevy” (NN Editore), romanzo d’esordio di John Woods.
«Un distretto così piccolo da trovarsi nello stesso palazzo del municipio», così ce lo descrive il traduttore Michele Martino; una piccola porzione di Stato, preda di un’industria spietata che trivella il terreno per estrarre risorse minerarie.
Un ambiente che nell’economia del romanzo conta molto, e che «sembra accerchiare e perfino schiacciare i personaggi, come fanno i boschi neri che incombono su tutto, orlando i margini dell’abitato e i crinali distanti» , prosegue Martino.
Il peggioramento delle condizioni di vita e di salute degli abitanti, la disperazione e la sete di vendetta, il culto dell’autodifesa e della giustizia personale, saranno gli elementi che porteranno la giovane Amy (la “Lady Chevy” del titolo, così chiamata per via delle sue forme abbondanti che ricordano il posteriore della popolare auto) a essere coinvolta in una spirale di paura e violenza.
Giunta sull’orlo di un abisso che minaccia di inghiottirla («E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro», scriveva Nietzsche), Amy dovrà fare i conti con la propria coscienza, con il proprio delitto e con il proprio castigo: «Potrei cambiare nome, trasferirmi altrove e ricominciare tutto daccapo. Non importa. Non c’è nessuna luce ad aspettarmi chissà dove. Il buio non mi segue. Il buio sono io».
Quella raccontata in queste, e molte altre storie, è dunque la provincia americana «e in particolare il Midwest, come ventre molle, conservatore e statico di un Paese per altri versi lanciato a briglia sciolta verso la modernità», come scrive Luca Briasco nella sua antologia “Americana” pubblicata da minimum fax (anche la bellissima prefazione a “Mi troverai nel fuoco” è a cura di Briasco).
Un serbatoio di storie, questo è soprattutto il Midwest americano. E in particolare, l’Ohio, una inesauribile fonte di ispirazione per nuove generazioni di scrittori e scrittrici (impossibile non citare la contea di Breathed di Tiffany McDaniel, scrittrice di smisurato talento e sconfinata fantasia); un luogo che sa essere insieme sfondo delle storie che vi si svolgono e personaggio esso stesso di quelle storie.
Robert Lowry
“Mi troverai nel fuoco”
Readerforblind.
Recensione di Valerio Scarcia
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