L’OROLOGIAIO DI BREST Maurizio de Giovanni

L’OROLOGIAIO DI BREST, di Maurizio de Giovanni (Feltrinelli – ottobre 2025)

Recensione 1 

Tic, tac. Tic, tac.

Quelle époque, les années ‘80.

Pourquoi?

Gli anni ‘80. Gli anni dei walkman e delle cuffiette con la spugna, delle videocassette, delle Timberland e dei Moncler. Delle canzoni stonate senza l’Auto-Tune. Dei video giochi a gettoni nei bar, del Commodore 64 per i più fortunati, delle foto stampate dai rullini. Del cubo di Rubik. Gli anni di “Top Gun” e di “Ritorno al futuro”. Dei cartoni animati prodotti dall’intelligenza giapponese.

Gli anni della nostalgia.

Ma gli anni ottanta sono anche gli anni del dolore senza una ragione. Gli anni delle guerre più o meno fredde, gli anni in cui alcuni muri venivano abbattuti e altri invece venivano costruiti. Gli anni in cui l’Italia viveva una guerra tutta sua. Una guerra tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici in cui i carnefici si consideravano vittime e in cui le vittime erano solo vittime e basta. Gli anni degli uomini – scudo, dei servitori dello Stato che con il proprio corpo facevano da scudo ad altri uomini.

“Persone da proteggere”. Persone da “sacrificare”.

“Scorta. O sorveglianza”.

Sono il periodo in cui l’odio è diventato carne e sangue. Carne che bruciava sotto i colpi di pistole e mitra. Sotto le esplosioni delle bombe. Sommersi nella polvere. E sangue, che scorreva come fosse acqua.

L’orologiaio di Brest e gli anni ‘80. Un paese che ha perso la memoria e un paese che ne ha tanta di memoria, forse troppa.

L’Italia e la Francia.

Pagine in bianco e nero si alternano a pagine solo nere. Nerissime.

Si può essere visionari anche guardando indietro, guardando al passato? Sì, se si possiede un’immaginazione straordinaria e innovativa che cerca di dare una forma a quel passato, contorni definiti.

E se Stephen King, il re del terrore, ha dichiarato che preferisce scrivere del passato perché “ne conosciamo la fine”, Maurizio de Giovanni, il re del noir, guarda al passato privo della fine. Proprio per dargli quel finale ancora ignoto. Un finale lasciato immobile nel buio. Come se stesse aspettando qualcuno per essere portato fuori di lì. Vuole essere trovato, il passato. E vuole essere consegnato alla giustizia.

C’è dunque ancora tempo? C’è ancora tempo per farlo?

“O passato, tu solamente sei vero!”. Così declamava Matilde Serao ne “Il ventre di Napoli”. Ed è questa verità che vogliamo. Per ritrovare la Memoria. Perché c’è memoria ogni volta che “c’è qualcosa di importante da ricordare”.

Ne “L’orologiaio di Brest”, non ci sono salti temporali, non è un andare avanti e indietro nel tempo. Passato e presente viaggiano l’uno a fianco all’altro, a volte l’uno di fronte all’altro come quando ci si specchia e la propria immagine riflessa non è quella reale, non è quella del presente. È quella di anni prima.

Lancette della memoria che restano senza tempo.

Come nella Recherche di Proust, tra Memoria e Oblio. Tra tempo perduto e tempo ritrovato.

Buchi della memoria. Come il mostruoso meccanismo creato da Orwell in “1984” allo scopo di inghiottire e cancellare le verità scomode. Le verità scomode.

E il passato, in questo romanzo, è “affidato” alla primavera del 1984.

Pourquoi 1984?

Nel 1984, anno terribile e straordinario, George Michael raggiungeva un grande successo con “Careless Whisper”. Nei suoi “sussurri imprudenti” cantava la verità e il dolore: “To the heart and mind, ignorance is kind. There’s no comfort in the truth, pain is all you’ll find”. Insomma, “Per il cuore e la mente, l’ignoranza è gentile. Non c’è conforto nella verità, il dolore è tutto ciò che troverai”. La verità porta con sé dolore.

Era l’anno de “La storia infinita” e dei bambini che sapevano ancora sognare.

L’anno della strage del Rapido 904.

L’anno in cui dall’Argentina arrivò a Napoli un uomo che cambiò il volto della città dandole, dopo dolori e fallimenti, finalmente una speranza.

Questa volta Maurizio de Giovanni si serve del noir per raccontare la Storia dell’Italia. Possiamo dire che nell’immaginare e nello scrivere di questa storia si sia mosso tra verità storica e narrazione letteraria. Rendendone molto sottile il confine. Forse perché la verità storica non è mai una soltanto. Forse la verità non è mai soltanto una, e non può esserlo pertanto neppure quella letteraria.

Non si tratta della cronaca fedele di quegli anni e di fatti o eventi determinati, bensì di una narrazione letteraria che attraversa il tempo permettendo all’autore e ai suoi lettori di confrontarsi con un passato che ha ancora troppe ombre, con verità giudiziarie mai raggiunte, con verità giudiziarie raggiunte e cancellate, con verità giudiziarie raggiunte e rinnegate.

Una cartolina venuta dal passato. Spedita e mai giunta al destinatario.

La sua, una storia nella Storia.

C’eravamo lasciati con Sara Morozzi e “Il pappagallo muto”.

Ci ritroviamo con una nuova figura femminile del noir italiano. Un nuovo personaggio femminile che si aggiunge alla Justice League di Maurizio de Giovanni. Una Wonder Woman imperfetta, coraggiosa ed egoista, determinata e ingenua.

Vera Coen. Giornalista e investigatrice per caso.

Maurizio de Giovanni pubblica, per la prima volta con Feltrinelli, un romanzo nero con una protagonista femminile. Une femme en noir.

Vera. Raccontami, Vera. Cosa è accaduto il 13 maggio del 1984?

Raccontami di quei giorni, di quei “colpi di Stato”, di quei colpi continui contro lo Stato. Raccontami come si può convivere col dolore, come si può convivere con il buco nero di un passato senza memoria. Raccontami cosa vuol dire crescere senza un padre. Raccontami delle bugie dette a fin di bene. Si possono dire bugie a fin di bene? Raccontami e fammi vedere.

Vera conduce un’indagine personale per dare un nome e una voce al suo dolore.

Debbo dirti una cosa, Vera.

Quel dolore non era solo il tuo. Era il dolore di un paese intero. Era il dolore di un paese che non è mai stato in grado di guardarsi allo specchio. Che ha rifiutato di farlo. Perché già sapeva che avrebbe visto qualcosa che non gli sarebbe piaciuto vedere.

Sentirete parlare del personaggio principale come di un’eroina femminile e solitaria. Della sua solitudine affettiva. Leggerete della nascita di una coppia crime inedita. Vera e Andrea. Una giornalista e un professore universitario.

Leggerete di un passato che non si è ancora concluso. “Vedrete” i fantasmi prendere forma e diventare carne e ossa.

E, ancora, sentirete parlare di un romanzo che offre ampia materia di discussione. E sentirete di una storia d’amore impossibile e mortale.

Io, invece, provo ad andare dietro le quinte di questo romanzo.

Provo a muovermi in uno spazio diverso. Che mi permetta di entrare nel romanzo e di camminare a un passo dalla protagonista. La seguo.

E adesso, ditemi. Ditemi che posso.

Tic tac. Tic, tac.

“L’orologiaio di Brest” merita di essere letto in silenzio. In silenzio merita di essere ascoltato. Senza rumori di sottofondo perché a fare rumore ci penserà la storia.

La storia, questa storia farà tanto rumore. Preparatevi, e portate le mani agli orecchi.

Fu un attimo.

Tic, tac. Tic, tac.

L’orologio segnò un attimo. E poi …

Lo senti il rumore? Lo senti l’odore di bruciato?

È domenica.

È maggio.

È una “meravigliosa domenica di maggio”.

È solo, una domenica di maggio.

E le lancette si muovono.

Tic, tac. Tic, tac.

Poi, il buio. Poi, il silenzio.

Buio e silenzio.

L’orologio si ferma.

“Mi perdoni, padre, perché ho peccato”.

Non è un saggio, non è un lavoro giornalistico il suo romanzo, ma dentro c’è tanta verità o meglio ancora c’è una disperata ricerca della verità. La sua è una “scrittura in movimento”, la venue à l’écriture, capace di proporre una riflessione collettiva su un’epoca e sui fatti di quell’epoca. Una scrittura che si pone sulle tracce di un passato dimenticato. Troppo in fretta. Come se non fosse mai esistito.

Come stanno veramente le cose?

È solo uno scroscio questo. Una finestra aperta sul passato. Come quelle imposte che non si chiudono bene, e lasciano passare un filo d’aria. Ininterrotto. Ma che ti mettono addosso freddo. Tanto freddo. Anche se fuori è primavera. E allora bisogna aggiustarla quell’imposta. Oppure bisogna trovare un riparo. Un riparo migliore dal freddo.

Questa non è solo una storia narrativa. È anche una storia visiva. È come se alla narrazione si affiancassero le immagini perché leggi, ma in realtà vedi, vedi l’azione, vedi i personaggi muoversi, interagire, vedi il sole e la pioggia leggera, che sembra non finire mai. E questa è una capacità tutta sua. Di Maurizio de Giovanni. L’écriture et l’image.

Il lettore diviene anche spettatore. Ed è, ad un tempo, l’uno e l’altro.

Si passano il testimone. Ma entrambi sono consapevoli che hanno di fronte un pezzo di quella “notte della Repubblica”, quella notte che sembrava non passare mai.

“Ha da passa’ ‘a nuttata”, declamava Eduardo. Ed è passata, sì. Ma è importante non dimenticare quella “Notte”. È importante non dimenticare.

Una sorta di canone inverso poiché c’è un vero e proprio ritorno al passato, ad un passato però ancora ignoto. Ad un passato ancora da scrivere.

La voce di Vera è un sussurro “nel suono del silenzio”. Come in “The sound of silence”, Vera si muove così, cammina da sola, e nei “suoi sogni irrequieti”. Lei osa. Osa rompere questo “suono”. Vera non ha paura. Il suo destino è nel suo nome. E Vera vuole sciogliere l’enigma. Perché un delitto non può, non deve restare senza verità.

E tu, non credi di avere bisogno di qualcuno, Vera?

Certo, si sa. Tutti hanno bisogno di qualcuno. Di qualcuno con cui camminare. Vera Coen e Andrea Malchiodi camminano insieme. Si muovono insieme. Tra i nemici che si muovono anch’essi, al loro fianco, nell’ombra.

Chi sono i tuoi nemici, Vera? E chi sono i loro complici?

“Mi perdoni, padre, perché ho peccato”.

E chi, chi può dire come sono andate veramente le cose?

Puoi provarci tu, Andrea? Possiamo provarci insieme? Tu ed io?

“Pioveva senza tregua quel giorno su Brest”.

Tic tac, tic tac.

L’orologio. “Che segna sempre l’ora giusta”.

La firma dell’assassino. Nera.

La Griffe noir de l’horloger.

“Definisci assassino”.

“Definisci terrorista”.

Colui che pianificava la morte. Che trasformava un essere umano in un obiettivo da annientare. Colui che separava violentemente un padre da un figlio, un marito da una moglie. Colui che decideva per gli altri. Che entrava nella vita degli altri cercando di sostituirsi a Dio.

Perché nel 1984 c’erano gli ultimi sussulti della lotta armata. Ma ogni sussulto era ancora in grado di colpire. Il terrorismo allora uccideva ancora. E uccideva talvolta senza neppure guardare in faccia i propri nemici.

Sei un nemico, e questo mi basta. Mi basta per fare di te un cadavere.

Erano gli anni degli irriducibili che rifiutavano l’appellativo di ex.

Se tuo padre è colpevole e il mio, una vittima innocente.

Se tuo padre è un assassino e il mio, è un cadavere fatto a pezzi.

Se tuo padre era un terrorista e mio padre, un giovane poliziotto.

Cosa possiamo avere in comune io e te? Se non l’assenza. L’assenza che si fa dolore. Il dolore. Il dolore con facce diverse. L’assenza che prende un volto. E prende un nome. Chissà com’era mio padre mentre moriva. Chissà com’era il tuo, mentre andava via, col suo orologio che faceva tic tac, tic tac.

Forse, l’Italia ha ancora bisogno di essere perdonata.

“Mi perdoni, padre, perché ho peccato”.

Ne “L’orologiaio di Brest”, la narrazione attraversa una trama complessa fatta di intrecci di storie e di eventi tenuti tutti insieme da un file rouge o forse sarebbe più corretto dire da un file noir. Con una tensione narrativa in un crescendo continuo. Sarà proprio questo intreccio particolarissimo a condurre a un finale sorprendente e assolutamente sospeso.

La scrittura di Maurizio de Giovanni non subisce stravolgimenti. Sempre limpida, accessibile, diretta e immediata. Fatta di frasi corte e di capitoli brevi.

Sono quattro i luoghi in cui si sviluppa la storia, ma non sono mai citati esplicitamente. Sono semplicemente intuibili da una serie di dettagli. Le sue descrizioni, i riferimenti sono come scorci, sguardi sulle città.

C’è l’Italia. Con la città che ha la montagna e il mare. Poi c’è la città dei Papi. E c’è la grande città, delle basiliche e delle chiese.

E poi la Francia. La Bretagna. C’è Brest. Con le sue maschere. Clochards e vecchi Pierrot. E c’è la “libertà che ha l’odore della pioggia” e del mare.

“Un minuto dopo tic tac, le lancette avevano ripreso vita”.

Nella sua canzone “Barbara”, nel 1944, Prévert metteva in poesia tutto il dramma dell’odio e della guerra. Ieri e oggi. Allora, come ora.

“Pioveva senza tregua quel giorno su Brest … Ricordati, ricordati comunque di quel giorno. Non dimenticare … Piove senza tregua su Brest. Come pioveva prima. Ma non è più così e tutto si è guastato. È una pioggia di morte desolata e crudele. Non è nemmeno più bufera di ferro, acciaio, sangue. Ma solamente nuvole”.

Allora, come nel 1984.

La Francia degli anni ‘80. Che non era solo la Francia pop, la Francia de “Il tempo delle mele”. Era altresì la Francia della “dottrina Mitterand”.

Ma la città Bretone è fatta anche di speranza. Come ne “Il ragazzo del cielo”.

“E nell’aria gelida finalmente scoppiò un’aurora magica che la notte incendiò. E si accese il mare sulla rotta dell’est. Poi l’Europa nel sole, dietro al porto di Brest”.

Et voilà. Un coup de théâtre. Un coup au cœur.

Uno e poi un altro e poi un altro ancora. Così difficili da intuire.

Perché con de Giovanni è sempre così. Nulla è scontato. Nei suoi romanzi, nelle storie che racconta, ci mette così tanto cuore che a volte quell’equazione, quell’equazione del cuore, risulta essere imperfetta. Ma non impossibile. Un’equazione che può portare a diversi risultati.

Vera ha fretta.

Perché hai fretta, Vera? Lo sai che un morto, per sua natura, “non può avere fretta”.

In questo romanzo non ci sono presunti innocenti. Sono tutti colpevoli. Forse ha ragione Bellinazzo quando dice che “la colpa è di chi muore”. Perché anche il morto ha le sue colpe.

Shh, Flavia sta ricordando. Come eravamo.

Shh, è ancora notte, Maddalena sta dormendo.

“Ti assolvo Padre, anche se hai peccato”.

Un romanzo d’indagine. Un’indagine storica. Un’indagine sulla Storia. Un noir politico nel quale non viene urlata la verità. La verità, viene cercata. A tratti inseguita. Una storia però che parla anche d’amore, come di speranza.

Un’intuizione meravigliosa quella di de Giovanni che lo allontana dai suoi personaggi e dalle sue storie seriali. Ma di cui, sia chiaro, noi vogliamo leggere ancora.

“Per raccontare la verità ci vuole coraggio. Il coraggio di scriverla”.

Un primo romanzo. Il primo di una nuova serie crime. Indiscutibilmente.

“Eccomi. Sono qui. Sono di nuovo qui, e ci sono da sempre, e ci sarò per sempre”.

E adesso “definisci scrittore”.

Mi piace pensare che lo scrittore sia colui che scrive perché ha “qualcosa” da dire. E qui, in questo romanzo, sono state dette tante cose.

E il mio cuore, come per trovare “riparo dalla tempesta”, e placare “i battiti impazziti”, anche stavolta, si è fermato tra le pagine del romanzo terribile e meraviglioso di Maurizio de Giovanni. Nelle pagine scritte dalla “mano di un genio”. Proprio in quelle pagine.

Merci, écrivain.

Merci beaucoup, Maurizio de Giovanni.

 

Recensione di Giuseppina Guida

 

Recensione 2

Maurizio de Giovanni è uno degli autori più prolifici e amati del panorama letterario italiano. Dalla saga del Commissario Ricciardi ai Bastardi di Pizzofalcone e Sara, ha saputo creare mondi narrativi coerenti e coinvolgenti, popolati da personaggi indimenticabili. La sua scrittura è elegante, empatica, capace di dare voce al dolore, alla speranza e alla complessità dell’animo umano.

Maestro indiscusso del giallo italiano, ci ha abituati a trame ambientate nella Napoli più autentica, tra atmosfere malinconiche e personaggi tormentati. Con L’orologiaio di Brest, però, lo scrittore compie una deviazione audace: ci porta lontano dai suoi consueti scenari e ci immerge in una narrazione più intima, quasi filosofica, dove il mistero non nasce da un delitto, ma dal tempo stesso.

Il protagonista, Andrea Malchiodi, è un uomo qualunque, travolto da un’accusa infamante che lo costringe a rivedere la propria esistenza. L’incontro con Vera Coen, giornalista e figlia di un uomo scomparso in circostanze misteriose, dà il via a un’indagine che è più interiore che investigativa. Il titolo stesso, L’orologiaio di Brest, evoca un tempo sospeso, un luogo della memoria dove ogni ingranaggio è una verità da ricomporre.

La trama si sviluppa con lentezza voluta, come il ticchettio di un orologio antico. Non ci sono inseguimenti, né colpi di scena spettacolari: c’è invece una tensione sottile, costruita attraverso dialoghi intensi, riflessioni profonde e una scrittura che sa essere lirica senza perdere precisione. Il tempo diventa protagonista, non solo come elemento narrativo, ma come metafora dell’identità, della giustizia e della memoria.

Con L’orologiaio di Brest de Giovanni dimostra una volta di più la sua capacità di reinventarsi, offrendo ai lettori un romanzo che è al tempo stesso un giallo, una riflessione esistenziale e un omaggio al potere della narrazione.

 

Recensione di Paolo Pizzimenti

 

 

 

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