IL DESTINO DI UN BOMBER Andrea Carnevale Giuseppe Sansonna

IL DESTINO DI UN BOMBER, di Andrea Carnevale Giuseppe Sansonna (66thand2nd – aprile 2025)

“Era di maggio, e forse erano centomila …

Il giorno è il dieci, il numero che il dio incarnato porta sulle spalle, nell’anno di grazia 1987”.

Con questo incipit che è come una finestra sul passato, su quei sogni che smisero di appartenere alla notte, entrando di prepotenza nella vita reale di tanti di noi, si fa strada il racconto della storia calcistica di Andrea Carnevale. “Il destino di un bomber”, scritto con Giuseppe Sansonna, è come un portale magico che ti porta indietro nel tempo. Ho avuto come la sensazione di essermi seduta davanti a un vecchio televisore, di quelli col tubo catodico che prendevano così tanto spazio che, talvolta, pensavo che proprio lì, dentro a quel tubo, ci fossero i miei eroi. Credo che lo abbiano pensato tutti i bambini degli anni ottanta. Forse anche qualche adulto. A dire il vero. Che se lo avessi aperto quel tubo, sarebbero sbucati fuori i miei eroi a riempire il mio salotto. A sedersi insieme con me, tutti e undici, su quel divano troppo rigido per permettere alle schiene di curvarsi. Mi sono seduta, dicevo, e ho rivisto un pezzo della mia vita. I lunghi capelli ricci e “la malinconia precoce degli occhi scuri”. Ho rivisto le partite, la MaGiCa e i gol, ho visto la storia farsi Storia e fermarsi a Napoli. Ho rivisto i sorrisi e le lacrime di Diego. “Le lacrime rigano con discrezione anche il volto di Andrea, in tribuna. ˂˂E se fosse già passata, Diego, la stagione più bella della nostra vita?˃˃ chiede a sé stesso, in silenzio, senza rispondersi”. È il 1990.

Ci penserà la vita stessa a dare una risposta, di lì a poco. Troppo presto. Ci penserà la vita a chiudere quella finestra.

Ma “Il destino di un bomber” non è fatto di solo calcio. È fatto di dolore. Di un dolore misto a vergogna che Andrea ha cercato per tutta la vita di tenere nascosto. Come il più atroce dei segreti. Lo ha rinchiuso quel dolore nel suo silenzio, in quelle fughe dalla luce del giorno, dalle luci dei riflettori, dalle urla chiassose dei napoletani che talvolta lo mettevano a disagio perché troppo in contrasto con la morte che si portava dentro.

 

 

È il racconto di una tragedia personale e familiare che ci invita a una riflessione individuale e collettiva. Quella di non girarsi dall’altra parte quando siamo di fronte a un dolore, nello stesso istante in cui lo percepiamo quel dolore, prima ancora che muti, prima ancora che si trasformi in tragedia.

Di arrivare in tempo, di ascoltare, quello che a volte non vogliamo sentire e di vedere quello che non vogliamo vedere, prima ancora che certe tragedie si consumino. Prima che non ci sia più niente da fare.

Andrea ha soli 14 anni quando perde la madre, Filomena. A ucciderla è il padre. Mosso da motivi passionali, che erano solo nella sua testa. Nella testa di una persona sofferente che andava aiutata, curata.

Tuttavia c’è un’ulteriore riflessione da fare che deve tenere conto della collocazione temporale in cui sono avvenuti i fatti, in cui si è consumato il delitto. È il 1975. Che cosa si sarebbe potuto fare?

Il codice penale allora vigente, che è anche quello attualmente in vigore, conteneva ben due norme aventi ad oggetto la cosiddetta “causa d’onore”. L’art. 587 che disciplinava il delitto d’onore, quindi il delitto commesso per motivi passionali nei confronti della moglie, della figlia o della sorella. Nei confronti di una donna, dunque. Che non escludeva la punibilità del fatto, ma che tuttavia prevedeva una forte riduzione della pena. E, come dicevo, almeno nella mente di suo padre, del padre di Andrea, quello era un delitto passionale.

L’altra norma “mostruosa” era l’art. 544 del c.p.

Tale norma prevedeva infatti quale causa di estinzione del reato di violenza sessuale il successivo matrimonio “riparatore”. Ditemi, è mai possibile riparare a una violenza sessuale?

Queste norme erano al tempo stesso la base e il risultato di una giustificazione sociale e culturale dell’onore. L’onore. Quale onore? E delle sue conseguenze. Il delitto, le lesioni personali.

Ho provato a pensare allora in quanti all’epoca sapessero. Perché a mio avviso il problema non sono stati solo i Carabinieri di paese, restii ad intervenire, a porre fine a quel “martirio domestico”, ai quali pur Andrea porta i resti di sua madre appena uccisa. Quanto, coloro che sapevano, che sentivano magari le urla: i vicini, gli amici, i familiari, le maestre. Le maestre a scuola, possibile per davvero che non abbiano scorto anche loro quella “dolcezza malinconica” negli occhi del piccolo Andrea, così come la descrive Sansonna?

Dunque, quanti di loro sapevano e si sono girati dall’altra parte.

Le due norme, gli artt. 587 e 544, sono state espunte dal codice penale e quindi abrogate, con legge, soltanto nel 1981.

Ma non solo. Il termine “femminicidio” viene utilizzato per la prima volta con il significato che oggi è accolto di “violenza di genere nei confronti della donna” soltanto nel 2003, grazie a un’antropologa messicana che aveva studiato i casi degli omicidi di massa delle donne di Ciudad Juárez. Mentre in Italia arriva esclusivamente nel dibattito pubblico, politico e nel dibattito accademico tra il 2010 e il 2011. E lì sostanzialmente è rimasto. Lì si è fermato.

La prima legge a tutela delle donne è, infatti, di appena 6 anni fa.

La legge 19 luglio 2019, n. 69, che reca modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e ad altre disposizioni, introduce il cosiddetto “codice rosso”, una sorta di corsia preferenziale a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Ma perché si possa parlare di delitto di femminicidio dobbiamo aspettare il mese marzo di quest’anno. Per la prima volta, infatti un disegno di legge di iniziativa governativa presentato in Parlamento a inizio primavera si propone d’introdurre il delitto di femminicidio come autonoma figura di reato che prevede quale sanzione penale l’ergastolo. Il ddl è attualmente fermo in Commissione al Senato.

In ultimo, va ricordato che il libro di fatto tratta, sia pur non utilizzando termini tecnici e giuridici, del resto non era questa la finalità, ma solo lo spunto, la condizione delle “vittime di violenza assistita”.

Chi è la vittima della violenza assistita? Il minore testimone di violenza all’interno di una famiglia, che nella quasi totalità dei casi è il figlio che assiste alla violenza del padre nei confronti della madre. Per chi volesse approfondire il tema invito a leggere “La bambola di pezza”, una raccolta di racconti a cura dell’avvocato Valentina de Giovanni.

Chiudo questa riflessione ringraziando Andrea Carnevale e Giuseppe Sansonna per la splendida ed emozionante presentazione al Salone Internazionale del Libro di Torino 2025.

Ho pianto. Ho pianto quando ho rivisto quel ragazzo dopo 30 anni, quando mi sono accorta di una luce nuova nei suoi occhi, la luce del perdono, della pace, della riconciliazione. Quando ho potuto finalmente dirgli grazie per quel gol. Era il 1987. Napoli – Fiorentina finì 1 a 1.

“17:47. 10 maggio. Napoli campione d’Italia. Napoli campione d’Italia”.

 

Recensione di Giuseppina Guida

 

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