EREDITERAI LA TERRA Jane Smiley

EREDITERAI LA TERRA, di Jane Smiley (La Nuova Frontiera – ottobre 2024)

«Un’immensa montagna che tutti ammiriamo, ma che nessuno ha voglia di scalare troppo spesso». Così scriveva nel 1961 Jan Kott a proposito di King Lear ribadendo il concetto di una presunta “non rappresentabilità” della tragedia, terrorizzata in epoca romantica.

Di tutt’altro avviso Agostino Lombardo, quando scriveva che «lungi dall’essere poco teatrale, King Lear può ben dirsi l’opera più teatrale di Shakespeare, e ciò nel senso che in essa il linguaggio del drammaturgo raggiunge la più alta, e specifica, intensità ed espressività».

Sembra inserirsi appieno nella questione della rappresentabilità dell’opera (o per dirla ancora con Lombardo, della sua “leggibilità”) l’americana Jane Smiley, che di una riscrittura della tragedia ha fatto il nucleo centrale del suo romanzo premio Pulitzer nel 1991, recentemente ripubblicato da La Nuova Frontiera con il titolo “Erediterai la terra”.

Così la vicenda viene attualizzata agli anni ’70 del secolo scorso e ambientata nelle vaste distese dell’Iowa, nella contea di Zebulon, un luogo in cui «il numero di acri e le finanze erano elementi essenziali come il nome e il genere di appartenenza». È qui che ha luogo la moderna tragedia, che ruota attorno alla abdicazione del sovrano (il fattore capofamiglia) in favore delle sue tre figlie.

Proprio come in Shakespeare, la decisione di una delle tre di sottrarsi al lascito sarà il primo passo di una discesa irreversibile verso l’abisso; sarà il crollo di ogni certezza e la fine dell’ordine costituito.

Da quel rifiuto, il mondo che circonda i membri della famiglia Cook non sarà più lo stesso.

Il cuore del romanzo (“A thousand acres” il titolo della versione originale) è nella triangolazione tra i rapporti familiari (su tutti, il rapporto padre-figlia) e quello con la terra, il lavoro nei campi, il raccolto: un gioco di equilibri che si spostano e di forze che si combattono agendo l’una contro l’altra, in un continuo alternarsi di crisi e prodezze.

«Gli uomini contro la natura, gli uomini contro le macchine, gli uomini contro le forze vorticose ed impersonali del mercato. Vittorie – ripulire l’ultimo campo prima della pioggia – e sconfitte – il prezzo del grano che scende di trenta centesimi a staio in un solo giorno; la strana e mutevole miscela di vigore e sfinimento».

Un violento acquazzone farà da scenario allo squarcio definitivo, l’impazzimento, in un crescendo di tensione drammatica che assumerà contorni epici (rievocazione del temporale che fa da tappeto musicale al celeberrimo monologo shakespeariano).

L’emergere di verità indicibili, oscuri segreti che si affacciano da un passato sepolto, tornato a tormentare le due eredi designate; l’accecamento del vecchio amico del padre/sovrano, sono tutti elementi che caricano ulteriormente il racconto di quella teatralità che caratterizza buona parte del romanzo.

In King Lear la “follia” (“Fool” in inglese) del sovrano, incarnatasi in personaggio, fornisce una chiave di accesso fondamentale a quella che Giorgio Melchiori identifica come la più grande intuizione drammaturgica di Shakespeare.

«Il Fool è la pazzia di Lear, e cioè la sua saggezza; è anzi la figurazione concreta, metafora incarnata, della coscienza (e consapevolezza) di Lear, coscienza del proprio errore di giudizio, della propria “cecità”, e appunto della propria follia – coscienza come rimorso e come illuminazione».

Nel gioco di segni linguistici e metafore risiede dunque la grandezza, la chiave stessa della scrittura della tragedia. «King Lear è strutturato dunque come una catena o una scatola cinese di metafore» , conclude Melchiori: «l’emblema centrale, la “mise en ambîme” del blasone metaforico, è il personaggio del Fool; intorno ad esso, con una stratificazione successiva che lo avviluppa, è il subplot di Gloucester con il tema della cecità, e poi la tempesta; si arriva così alla metafora suprema e inglobante, quella espressa dal motto del teatro Globe (che si vorrebbe pensare scelto dallo stesso Shakespeare): Totus mundus agit histrionem, il mondo intero è teatro. Il teatro come metafora del mondo, anzi il teatro come mondo, come creazione di un universo autonomo, che in questo caso è l’universo della tragedia del re Lear».

Nel romanzo il concetto stesso di eredità, nell’edizione italiana evocato sin dal titolo, assume i contorni sfumati della metafora. Le eredità in dote alle tre figlie Cook saranno lasciti immateriali, di ben altra forma, peso e sostanza rispetto alla proprietà, alla fattoria, alla terra da coltivare.

Eredità intime e profonde, come il rimpianto. Come la solitudine.

Jane Smiley

“Erediterai la terra”

Traduzione di Raffaella Vitangeli

La nuova frontiera.

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