COSMOFOBIA Lucía Etxebarría

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COSMOFOBIA, di Lucía Etxebarría (Guanda)

Il termine ‘cosmofobia’ in italiano non esiste. O almeno, facendo una ricerca con Google, non ho ottenuto risultati. La Treccani sembra conoscere solo le due parole separate ma non congiunte. ‘Cosmo’ e ‘fobia’. Eccone le accezioni: «còsmo- [dal gr. κόσμος (v. cosmo), κοσμο-]. – Primo elemento di parole composte, derivate dal greco o formate modernamente, nelle quali significa, in genere, ‘mondo’, ‘universo’»; «fobìa s. f. [uso sostantivato del suffisso prec.]. – In psichiatria, disturbo psichico consistente in una paura angosciosa destata da una determinata situazione, dalla vista di un oggetto o da una semplice rappresentazione mentale, che pur essendo riconosciuta come irragionevole non può essere dominata e obbliga a un comportamento, inteso, di solito, a evitare o a mascherare la situazione paventata; prende nomi diversi a seconda del suo contenuto: agorafobia, claustrofobia, ereutofobia, ecc.»

 

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Credo sia per questo che l’autrice abbia ritenuto necessario mettere un’epigrafe dove ne dà una definizione in inglese, presa dal dizionario urbano, che tradotta viene pressappoco così: «ossessione del cosmo e nel rendersi conto del posto che vi si occupa. Da lì, cosmofobico, aggettivo. Era una persona felice ed estroversa fino a quando non ha maturato la cosmofobia. Da allora, conoscendo il suo vero posto nell’universo, la pazzia fu inevitabile.»

L’autrice aggiunge però una seconda citazione presa da un’intervista ad Alfredo Álvarez Plágaro: «La mia opera è dettata in buona misura dalla casualità; non sa dove sta andando e quasi sempre io per primo ho da ridire sulla direzione che prende. Mi interessa quello che mi ha fatto arrivare dove sono e quello che mi farà staccare da qui. Ogni quadro è una traccia di questo viaggio.»

Un’opera quindi che parla di mondo, di follia, di viaggio. Inoltre, a pagina 15, Lucía Etxebarría ribadisce (ormai all’interno dell’opera) che «questo è un libro delle occasioni perse o colte», parlando dell’aneddoto che apre la narrazione di intrecci di vite in uno dei quartieri più vividi di Madrid, Lavapiés, quartiere da lei abitato, tra la Puerta del Sol e la stazione di Atocha. «Il nostro, in teoria, è un quartiere piuttosto popolare, ma adesso è diventato di moda per certa gente progredita che lo considera meticcio e multiculturale […].

 

Ma come dice bene Antón, sarà anche multiculturale, ma interculturale no, perché nessuno si mescola agli altri.» (p. 76). Più che un romanzo, questo libro è una raccolta di interviste ai numerosi personaggi che brulicano nelle sue pagine.

Storie di vite che s’incrociano in intrighi amorosi che iniziano, finiscono, si mescolano, così come gli affari, i successi e gli insuccessi, le star del cinema, della musica e gli artisti navigati. Etero, gay, spagnoli, marocchini, ecuadoregni, senegalesi, adulti, bambini, uomini, donne, poveri, ricchi, maltrattati, amati o respinti.

Ne esce fuori un ritratto variegato e complicato del quartiere madrileno che rispecchia in gran parte le nuove società urbane contemporanee. Più ci sono differenze e più le relazioni si complicano, creando interesse e curiosità per il diverso. Etnia, lingua o religione, ma anche scelte di vita, comportamenti sessuali, musica, sesso, droga e alcol, spesso povertà e disagio sociale.

 

In questo turbinio di esperienze di vita, tra i bambini della ludoteca, le loro famiglie e gli altri abitanti del quartiere nascono nuove forme di socializzazione che mettono in contatto persone di varie età, razze e classi sociali: professori universitari e immigrati poverissimi, piccoli spacciatori e attrici da quattro soldi disoccupate, giovani donne manager rampanti, impiegate frustrate, musulmane che rinnegano il velo, stiliste, modelli.

Settimo romanzo di Lucía Etxebarría, scrittrice e giornalista, vincitrice del Premio Planeta nel 2004, “Cosmofobia” esce in Italia, con Guanda, grazie alla traduzione di Roberta Bovaia che ha saputo cogliere la ricchezza linguistica e renderla fluida anche nella nostra lingua, mantenendo il ritmo del racconto che spesso rivela la nitidezza, l’immediatezza e la vivacità dell’oralità dei borghi popolari. Un altro punto di forza di “Cosmofobia” risiede anche nella ricerca da parte dell’autrice, di quello che il presente può rivelare delle nostre capacità di adattamento che forse ci faranno pensare a un futuro di accettazione del diverso, senza volerlo capire o introiettare, ma soltanto rispettarlo.

 

Forse per questo Benani Yamal, pittore affermato e proprietario della taverna del quartiere, figlio di padre marocchino e madre libanese è il personaggio che più intriga la scrittrice. «A volte ho l’impressione che Yamal mi abbia sempre affascinato perché rappresenta l’essenza stessa del quartiere, che si nasconde dietro tante maschere diverse, il cuore mistico e latente di tutte le persone che ci vivono insieme senza conoscersi né riconoscersi, di questa massa limitrofa che affronta un’inevitabile peripezia esistenziale entro la quale avanza, burocraticamente ascritta a una patria ma emotivamente fedele a un’altra. In questo punto d’incontro, in questo asse cartesiano di contrari in cui si distilla il succo di quello che sarà, probabilmente, il mondo del futuro, Yamal è il Tutto [..], il quartiere stesso: un sopravvissuto, un mistero, un abisso.» (p. 349)

Carissimi lettori, non vi rivelerò altro: non voglio sciuparvi la gioia di scoprire i personaggi, via via che avanzate nella lettura e ancora per un po’ mi godrò in silenzio questa mia passeggiata per le vie, i parchi, la ludoteca, i bar del quartiere Lavapiés.

I consigli del Caffè Letterario Le Murate Firenzedi Sylvia Zanotto

 

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