
CATERINA COSTA. La nave dei misteri, di Marco Liguori (De Ferrari)
A ottanta e più anni dagli eventi, per tantissimi napoletani, il suo nome evoca ancora orrore e sgomento. È la storia di un disastro, le cui cause vanno ricercate – come il più delle volte accade – nell’insulsaggine degli uomini. In questo caso, di coloro che potevano evitare che l’esplosione di una nave, la Caterina C. (dove quel C. sta per Costa, come il cognome dell’armatore), si trasformasse in qualcosa peggiore di un bombardamento.
È questo il filo conduttore del volume scritto da Marco Liguori “Caterina Costa la nave dei misteri” (De Ferrari editore, pp. 250, € 19,50). Più che un libro una vera e propria inchiesta a trecentosessanta gradi sulle cause che portarono al peggiore disastro della marineria italiana, in termini di distruzioni e vittime civili.
Napoli, 28 marzo 1943. Chi ne serba ancora memoria riferisce che era una piovosa domenica d’inizio primavera. Una primavera che coincideva con il terzo anno di guerra. Il peggiore. Segnato dalle devastanti incursioni dei B-17 Flying Fortress e dei B-24 Liberator anglo-statunitensi che, a partire dal dicembre 1942, avevano messo a ferro e fuoco la città del Vesuvio.
Chi, più per un caso che non per curiosità, guardò l’orologio, notò che le lancette erano oramai prossime alle 17:30. Fu allora che la città venne scossa da una deflagrazione talmente violenta e inaspettata, da pregiudicare l’integrità dell’udito di centinaia di napoletani, che da via Marina fino ai Decumani si apprestavano a trascorrere un pomeriggio di festa tutto sommato tranquillo. Non tanto per intercessione di Castore di Tarso, che il Martirologio Geronimiano ricorda il 28 marzo, e nemmeno per la concomitanza con la festa della Regia Aeronautica, che in quello stesso giorno, celebrava i vent’anni di vita. Bensì, perché nessuna incursione aerea era stata programmata dai comandi Alleati per quell’ultima domenica di marzo.
Ad esplodere, in un inferno di fiamme e di schegge, era la “Caterina C.”, un mercantile di oltre ottomila tonnellate di stazza lorda, requisito cinque mesi prima agli armatori Costa di Genova, per essere adibito al trasporto di materiale bellico sulla rotta Napoli-Biserta. Una nave solo nell’aspetto, perché in realtà si trattava di una vera e propria bomba ad orologeria piazzata nel cuore della città, a causa dell’imperizia e delle ingiustificabili negligenze di chi, come l’Alto Commissario per il porto di Napoli, Mario Falangola, e di un’altra decina tra ammiragli e generali, era investito della responsabilità di vigilare sulla sicurezza dello scalo marittimo, ma anche di chi vi lavorava, e di coloro che vivevano nelle vicinanze dell’approdo navale più importante del basso Tirreno. Difatti, nella pancia della “Caterina C.” erano stati stipati quasi 1.775 tonnellate di bombe e munizioni di vario calibro, 789 di carburante e di acido solforico e più di trentaduemila quintali di altro materiale, tra cui 1400 tra automezzi, cannoni e carri armati.
L’onda d’urto supersonica, che nessun napoletano aveva mai conosciuto, investì non solo le infrastrutture portuali, i Magazzini Generali, la dogana e quanto si trovava nell’area antistante la darsena, ma anche il centro storico e la parte alta della città. Almeno seicento i morti e migliaia i feriti, falcidiati da centinaia di migliaia di piccoli e grandi detriti roventi o, anche, sbalzati via come fuscelli dal violento spostamento d’aria. Cinquantamila gli edifici «più o meno danneggiati», secondo la valutazione del Genio Civile, riportata nella nota che il prefetto di Napoli, Marcello Vaccari, inoltrava al ministero dell’Interno e alla Direzione generale della Polizia, tre giorni dopo quel tragico 28 marzo.
Ormeggiata nella darsena “Armando Diaz”, a poche centinaia di metri dalle attuali via Marina e corso Arnaldo Lucci, la “Caterina C.” avrebbe dovuto salpare, con destinazione Biserta, alle 16 di quella stessa domenica. Ma qualche ora prima, con le operazioni di carico già completate, al comandante (militare) della nave giunse la comunicazione che la partenza dell’imbarcazione era stata posticipata al giorno successivo. Giusto il tempo di comunicare a parte dell’equipaggio e alla maggioranza dei militari già imbarcati che avrebbero goduto di un intero pomeriggio di libera uscita, che la stiva n. 6, localizzata a poppa della nave, fu squarciata da una violenta deflagrazione seguita da una fiammata alta quasi venti metri. I rapporti indicano anche l’orario, compreso tra le 14 e 12 minuti e le 14 e 15 minuti. Praticamente subito scatta l’allarme. Dalla vicina via del Sole arrivano anche i pompieri. Mezz’ora dopo, complice pure il vento di scirocco, la nave era già un tizzone ardente. L’epilogo della vicenda (avvenuto a distanza di oltre tre ore dalla prima esplosione) è una delle pagine più nere scritte nel corso del secondo conflitto, scandita – come è stata – da attese di ordini, rinvii, ripensamenti e quant’altro avrebbe potuto scongiurare un disastro seguito in diretta da centinaia di napoletani che – senza che nessuno si preoccupasse di allontanarli – s’affollavano in prossimità dello scalo marittimo per assistere al rogo della nave.
L’inchiesta che ne scaturì è la trama di una storia che, nel disastro del traghetto “Moby Prince” di 48 anni dopo, avrà l’identico finale. Un finale che ben si coniuga con il sostantivo “mistero”, che Marco Liguori utilizza nell’identificare la “Caterina Costa”.
Di positivo – chiamiamolo impropriamente così – resta il fatto che la strage e le distruzioni causate dall’esplosione della nave segnarono il definitivo punto di rottura tra Napoli e il regime che, senza prevedere le conseguenze, aveva causato una guerra che, in quell’inizio di primavera, aveva già provocato la morte (o la prigionia) di circa centomila soldati italiani e la morte (sotto le bombe Alleate) di oltre trentamila civili.
Di Nico Pirozzi – Giornalista e saggista
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