AMERICAN PSYCHO Bret Easton Ellis 

American Psycho

AMERICAN PSYCHO, di Bret Easton Ellis

Recensione 1

Io sono un prodotto, un’aberrazione. Sono un essere umano non accidentale. La mia personalità è abbozzata, informe, la mia crudeltà è radicata e persistente. La mia coscienza, la mia pietà, le mie speranze sono scomparse tanto temo fa (probabilmente a Harvard) ammesso che siano mai esistite.

“LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH’ENTRATE”, così si apre questo geniale e terrificante romanzo, con un urlo, un grido disperato di un demonio che non può più sopportare l’inferno.

Non si può dire che Bret non mi abbia avvisata.

“Ti sto portando dritta dritta all’inferno, l’inferno di Patrick Bateman, l’inferno di New York, l’inferno dell’America degli anni ’80, l’inferno del mondo, ma soprattutto il mio personale inferno”.

 

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Questo mi è sembrato di sentirmi sussurrare all’orecchio fin dalle prime righe del primo capitolo che mi strizza l’occhio con il titolo “Pesci d’aprile”

“Il pensiero è inutile, il mondo è privo di significato. Il male è l’unica cosa permanente. Dio non è vivo. L’amore non è degno di fiducia. La superficie, la superficie, la superficie, ecco l’unica cosa in cui ciascuno trovava un qualche significato…questa era la civiltà dal mio punto di vista, colossale e frastagliata.”

Un romanzo che scava, distrugge, divora, destruttura l’essenza umana fino ad arrivare al suo nucleo.

“Non provavo sensazioni definite, se non l’avidità e forse il disgusto più totali. Avevo tutte le caratteristiche dell’essere umano – pelle, carne, sangue, capelli – ma la mia spersonalizzazione si era fatta così intensa, era andata così a fondo, che la normale facoltà di provare compassione era stata estirpata, vittima di una lenta, precisa volontà”.

 

 

Inizia tutto con una lunga, estenuante quasi ossessiva descrizione di abiti, accessori, cibi, ristoranti, locali, liste interminabili di grandi firme intervallate da dialoghi senza senso, deliranti, senza una vera e propria direzione. Ognuno sembra parlare da solo, a sé stesso. Nessuno ascolta l’altro, non c’è conversazione, non c’è scambio, non c’è comunicazione.

“Ma lei sta ancora parlando; non sente niente; non registra nulla. Non afferra una singola parola di quello che dico. La mia essenza le sfugge”

Tutti i personaggi di America Psycho sono semplicemente gusci vuoti, meravigliosi, sofisticati, griffati, curatissimi gusci vuoti.

E poi c’è Patrick Bateman, lo splendido ragazzo della porta accanto; bello come un dio, giovane, ricco, di buona famiglia, con un sofisticato gusto estetico, critico musicale di livello (i capitoli in cui descrive gli album dei Genesis, Whitney Houston, Huey Lewis and the News, sono dei capolavori assoluti degni delle migliori riviste del settore)… ma Patrick Bateman è malvagio, è diabolico, è perverso, è sadico, sensibile solo a tutto ciò che lo può far apparire più bello e più ricco. Patrick Bateman è un serial killer chic.

Patrick Bateman è l’uomo annientato da uno stile di vita che distrugge tutto ciò che è positivo, da un culto che fa del superficiale un dogma primario.

 

 

Tutto ciò di cui si circonda fa da cornice ad un vuoto esistenziale abissale e senza scampo che lo porta inesorabilmente ad una condizione estrema e primordiale…bestiale.

E questo suo lato bestiale lo sfoga su barboni, animali, prostitute che uccide dopo lunghe e allucinanti torture che vanno oltre ogni limite infernale.

Ma Bateman non si limita ad uccidere, si diletta a farlo.

“Il male sta in quello che sei? O in quello che fai? Il dolore che provo è costate, acuto, e non spero in un mondo migliore per nessuno. In realtà desidero infliggere agli altri il mio dolore. Non voglio che nessuno mi sfugga”

Se le descrizioni degli abiti, dei tessuti, dei cibi, degli arredi, sono minuziose e particolareggiate, quelle degli scempi che compie superano ogni umana immaginazione.

Bret ha raggiunto livelli di atrocità quasi inenarrabili ma ormai mi è chiaro, lui non è uno scrittore politically correct.

Bret Easton Ellis è disturbante, molto…ma efficace e potentissimo.

American Psycho è una denuncia contro quel sistema che ha ignorato una serie di doveri sociali nell’America di allora: impedire l’abuso del sistema esistenziale, assicurare cibo e ricovero ai senzatetto, la discriminazione raziale, promuovere i diritti civili, instillare una coscienza nei giovani e redimerli dal materialismo imperante…in parte, ma non solo…il resto l’ho scoperto leggendo Lunar Park, ma questa è un’altra storia…

 

 

American Psycho è un romanzo che terrorizza e affascina, che ripugna e attrae, l’atmosfera anche se maligna è densa di un fascino inspiegabile.

In tutto il falso luccichio che racconta, in tutta questa ricchezza vanesia, in tutto questo sangue e urla disperate c’è solo un accenno d’amore, piccolo, breve e fugace, che mi ha fatto sperare di trovare una luce…

“Ma di lì a poco la mia macabra gioia scema, e incapace di trovare conforto in alcunchè scoppio in lacrime pensando a quello che sono, e mentre piango ripeto tra i singhiozzi: – Vorrei solo sentirmi amato –“

L’ho cercata, riga dopo riga, ma Bret ha scritto a chiare lettere QUESTA NON E’ L’USCITA…

“Non ho acquisito alcuna conoscenza più approfondita di me stesso, e niente di nuovo può essere compreso in base al mio racconto. Non c’era alcun motivo perché vi raccontassi tutto questo. Questa mia confessione non significa niente…”

Buona lettura!

Recensione di Cristina Costa

 

 

Recensione 2

Un aneddoto personale

American Psycho è un romanzo del 1991.
Da fan di Ellis, mi precipitai a comprarlo appena uscì.
Ne fui non solo deluso, ma decisamente scandalizzato (ero molto giovane) dalla discesa nel baratro di depravazione e orrore e dal compiacimento nelle minuziose descrizioni di omicidi e scomposizioni, al punto che lo gettai via.
Proprio nel bidone.
Prima e ultima volta che mi è successo.

 

Poi anni dopo ascoltai una sua intervista in cui raccontava del trauma del proprio trasferimento da Los Angeles a New York: le persone, lo stile di vita, i ritmi, tutto era diverso; se a L.A. le persone di successo vivevano ogni situazione con distacco “malato”(vedi “Meno di Zero”), a NYC le persone di successo vivevano con frenesia estrema, nevroticamente attente ai dettagli dell’abbigliamento, dell’apparire, di ciò che possedevano, invidiose le une delle altre in un eterno gioco al rilancio tra successo e possesso, al punto che ne fu addirittura spaventato.

 

E dire che Ellis non era esattamente un santo, ai tempi del trasferimento, anzi forse non lo era mai stato. Ma gli venne in mente l’idea che i giovani manager newyorkesi dovessero per forza condurre una vita segreta, per sfogarsi, per liberarsi delle proprie nevrosi.

Ne immaginò quindi uno che di giorno fosse perfetto per il proprio ambiente, ma pronto a trasformarsi di notte in un sadico serial killer “organizzato”; e pensò di raccontarlo in soggettiva, per far vivere in prima persona al lettore tutto l’orrore che immaginava in quelle persone.

 

Era nato Patrick Bateman: “Sento la maschera di normalità che indosso ogni giorno scivolare lentamente via”, asserisce in una scena particolarmente riuscita.

Dopo quell’intervista, decisi di riprovarci.
Ricomprai il libro e non me ne sono mai pentito.

Recensione di Salvatore Gagliarde

AMERICAN PSYCHO Bret Easton Ellis

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