Abbiamo intervistato Sara Gambazza, partendo dal suo ultimo romanzo “Quando I fiori avranno tempo per me” e toccando vari temi letterari e sociali.
Intervista n. 277

Buongiorno, prima di tutto grazie per aver accettato questa intervista. Le chiedo di farci una piccola panoramica del suo nuovo romanzo “Quando i fiori avranno tempo per me“.
Buongiorno e grazie a voi. Il romanzo “Quando i fiori avranno tempo per me” racconta di una madre che si ostina a non piegare la testa di fronte alla miseria e di due figlie che in quella stessa miseria crescono, graffiate, stracciate, arrabbiate e fiere. Del desiderio di riscatto. Di speranza.
Storie piccole a cui ho cercato di dare un respiro grande, che assorbisse l’urto del mondo intorno: il ventennio fascista, la fame, la guerra.

L’opera ha tre protagoniste principali, Anita e le figlie Rosa e Ninfa. Quali sono i loro tratti principali e da quali basi è partita la loro nascita come personaggi?
Anita nasce con una mano di carte balorda, che gioca come il sangue le dice di fare. Si prostituisce per poche lire, così da garantire zuppa e pane secco alle figlie, e vive d’istinti, emozioni che aggrovigliano i visceri, di cose dette più con le mani che con la bocca. Ama fortissimo e scoppia di dignità.
Rosa, figlia maggiore di Anita, cammina tra le proprie miserie leggera, guardando il mondo con tenerezza anche quando non mostra che spigoli. Vivere per lei è accettare, cercare una posizione comoda sulla più scomoda delle sedie, non arrendersi al lamento.
Ninfa, la figlia minore, è di tutt’altra pasta: inquieta, riottosa, incapace di ammansire il desiderio di ciò che non può avere, che a tratti le strilla tanto forte in testa da spegnerle i pensieri. Ninfa osserva, vuole, fa. Sbaglia, calpesta e si calpesta. Sporca e rilava l’anima senza mai abbassare lo sguardo.
Ninfa era mia nonna, Rosa sua sorella. Le ho raccontate come le ricordo, dolce e mansueta una, tenace e ruvida l’altra. Scrivendone, ho voluto regalare a entrambe un destino diverso da quello di necessità senza riscatto che entrambe hanno vissuto: ho giocato coi ‘se’, ho immaginato possibilità. Ne sono uscite vite distanti da quelle reali, spaccate e ricomposte, che ho raccontato con grande affetto.
La storia si svolge nell’Italia del 1922 eppure tanti temi affrontati e tante situazioni narrate non sembrano affatto superate ai giorni nostri, possiamo vedere in questi l’attualità del suo lavoro? E come si spiega tutto questo a più di un secolo dalle vicende raccontate?
La storia è ciclica perché ciclico è il pensiero, ciclico è il sentire, ciclico è il dimenticare. Forse fa parte della natura, chissà… distruggere, ricostruire, promettere, scordare, tornare a distruggere.
In verità niente mi sembra più lontano dall’essere naturale.
Eppure l’uomo fa questo, forse perché la natura gli è scivolata via dai pori, lo sviluppo del cervello ha assorbito in buona parte l’anima, almeno quella collettiva. Credo sia così. Drammaticamente, inesorabilmente. Il male è un calzino rosso in lavatrice: sai che il colore col bianco non va mescolato, un bucato rosa te l’ha insegnato e a lungo i tuoi bucati saranno splendenti. Ma, prima o poi, qualcosa di colorato scivolerà di nuovo tra i vestiti. Per distrazione. O per volontà di chi vuole venderti nuova biancheria candida e i calzini li fodera di rosso spacciandoli per bianchi.
Mi ha molto colpito il titolo “Quando i fiori avranno tempo per me“. I fiori sono legati a un regalo e/o alla primavera e quindi alla rinascita, in che modo li relaziona alla storia di Anita?
Il titolo è tratto dalla poesia di Sylvia Plath “Io sono verticale”, che racconta la fatica di mostrarsi verticali, dritti, solidi di fronte a tutti e tutto.
«Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.»
Questo dice Sylvia Plath e lo fa con una naturalezza puntuta che scolla la pelle.
Io questi versi li sento addosso. E addosso li sentirebbero i personaggi della mia storia, se avessero carne e occhi per poterli leggere, perché l’orgoglio pesa, la dignità è un fiato corto a cui devi dare aria a ogni respiro. Con tenacia. E grande fatica.

Anche nel suo precedente romanzo “Ci sono mani che odorano di buono” aveva come figure principali persone “ai margini della società”, in un intreccio di destini dove si scopre il valore salvifico della solidarietà. Che ricordi ha di quella storia e quali pensa siano i suoi punti di forza?
Quella storia mi appartiene, così come mi appartiene il Cinghio, quartiere che ne fa da sfondo e in cui sono cresciuta. La forza del romanzo penso sia proprio questa: appartenere al racconto, scaricare sulla carta il male che fa vivere ai margini e il bene che può derivarne. Il senso di solidarietà che ne emerge non è pensato: quello che ho sentito, sento e scrivo ha più a che fare col riconoscersi e stringersi per fare muro all’uragano che impazza tutt’intorno.

Non si può non pensare a Fabrizio De André e ai suoi “ultimi”, eroi e protagonisti di tante canzoni più o meno famose. Quali pensa siano i rischi e le opportunità nel raccontare storie con attori principali coloro che per la società sono gli emarginati?
Accorciare le distanze. Questo dovrebbe fare raccontare gli ultimi. È esattamente come nella corsa di lunga distanza: il front runner nemmeno li vede gli ultimi della fila. È più forte, corre per vincere, perché dovrebbe interessarsi a chi ha perso in partenza? Eppure, anche chi è in coda corre: stesso cuore, sangue, gambe. Meno possibilità.
Ora: lo sport prevede che il desiderio di vincere spinga, l’agonismo chiede individualità ed è giusto che sia così. Ma la vita no. Nella vita accorciare le distanze significa allungare un braccio e arrivare a stringere una mano tesa, sfilare un paio di piedi dal fango, mettere a fuoco ciò che non si conosce e capire.
I rischi non esistono, sono immaginari, come le paure dei bambini che trattengono il fiato passando accanto a luoghi pieni di chissà quali mostri. Trattenere il fiato non porta a nulla: bisogna respirarsi, guardarsi in faccia, impararsi.
Le vicende vissute dai suoi personaggi trovano spesso posto nelle pagine di cronaca sia locale che nazionale eppure credo che calate in un romanzo abbiano nel lettore un effetto ancora più potente perché gli consentono di immedesimarsi in quello che sta vivendo e di sentirsi più partecipi. Lei cosa pensa a riguardo?
Pesto ancor più forte sull’idea espressa nella risposta precedente: avvicinarsi, osservare, sentire, sono la base solida da cui spiccare il salto che porterà a capire.
Capire allontana il sospetto, tiene a freno la paura. E costa fatica. Mescolare immaginazione e realtà, e ficcare tutto in una storia che prometta di mantenere una certa ‘distanza di sicurezza’, è un po’ come sbriciolare la medicina in un cucchiaio di zucchero.
Come ultima domanda, ringraziandola per la disponibilità, le chiedo in questo periodo dove alla comunicazione faccia a faccia si preferisce sempre più spesso quella virtuale qual è il suo rapporto con la realtà dei Social.
Rapporto faticoso. Per i mille motivi che tutti conoscono (vite fasulle, distanze siderali, mancanza di carne e contatto, intorpidimento del pensiero), più uno: la triste dipartita dei ‘Perché’.
Crescere, per me come per molti, non è stato semplice. Capita che un bambino abbia spalle nude e una pioggia di domande senza risposta a intirizzirlo fino alle ossa. Da bambini le cose grandi, spaventose, angosciose non si chiedono, o almeno, io non lo facevo.
Oggi, chiedo. Ho imparato che i ‘perché’ sfrondano il male, sono una sorta di potatura per l’anima, rendono i rapporti tra le persone limpidi e leggeri. I social accartocciano i ‘perché’ e li fanno scivolare sotto i piedi. Di nuovo lì. Gli insulti restano sospesi, come i ceffoni di trent’anni fa. Perché dici questo?, vorresti chiedere. Ma non otterresti risposta, né tantomeno la grazia di vedere chi te l’ha dato quel ceffone.
I social possono essere una pozzanghera profonda, ci vogliono scarponcini adatti per tenere i piedi al caldo. Forse non tutti li possiedono. E, anche avendoli, capita di dimenticare di indossarli e infilarsi nel letto, la sera, con le dita ghiacciate.
Intervista di Enrico Spinelli
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