Abbiamo intervistato Fabrizio Silei che oltre a rispondere alle nostre domande sulle sue opere ci ha regalato alcuni brani del suo prossimo romanzo in anteprima.
Come prima domanda, le chiederei di parlarci de “Gli occhi del serpente“, terzo romanzo della serie de “Il contadino e il commissario”, uscito ormai un anno fa.
Il romanzo è ambientato nel 1938. Durante la visita di Hitler a Firenze, un cadavere viene rinvenuto all’Istituto d’Arte di Porta Romana, in quella che è stata anche la mia scuola superiore negli anni ’80. Un luogo veramente affascinante per chi ama l’arte. Ha la più grande gipsoteca d’Europa, con calchi fatti sugli originali delle grandi sculture del Rinascimento e, per questo, ho scoperto che la scuola fu coinvolta nell’“abbellimento” di Firenze con statue, fregi e calchi in gesso in occasione della visita di Hitler.
In questo romanzo le vicende dei vari personaggi vanno avanti, e anche loro si trasformano. Pietro viene strappato, come sempre, al suo daffare e a qualche faccenda importante alla fattoria del Nero, mentre il conte ne combina stavolta una proprio bella grossa. Nelle mie intenzioni, fra le altre cose, il romanzo indaga la nostra incapacità di riconoscere il male quando ce lo troviamo di fronte. Come spiegare, altrimenti, le strade colme di persone provenienti da tutta la Toscana e da varie parti d’Italia per applaudirlo, o certi successi elettorali odierni?
Il tema del doppio, del sottosuolo – per dirla con Dostoevskij – e del pregiudizio lo attraversano, ma stavolta c’è una grande novità che posso svelare senza nulla togliere a chi deve ancora leggerlo: Ernestina, la bella fidanzata dell’agente Petruzzelli, il nostro Poirot delle lenticchie, diventa detective e protagonista dell’indagine insieme a Pietro e a Vitaliano, il commissario Draghi. Il romanzo ha anche delle pagine misteriose, la scuola nasconde un segreto, qualcosa che, naturalmente, si comprenderà solo alla fine.
Cinque anni fa comparivano per la prima volta nel mondo editoriale Vitaliano Draghi e Pietro Bensi. Come sono nati questi due personaggi e quale esigenza l’ha spinta a raccontare le loro avventure?
A un certo punto della mia vita e della mia carriera di scrittore, dopo la morte di mio padre, ho sentito il bisogno di guardarmi indietro e di fare i conti con la mia storia familiare e le mie radici. Io non ho mai conosciuto i miei nonni, ma dentro di me abitavano tantissimi racconti e aneddoti sulla vita contadina e sul Chianti, narratimi dai miei genitori: il passaggio del fronte, l’impegno politico, la nascita della cooperativa, gli apologhi e i modi di dire, le feste di paese e i corteggiamenti, e così via.
Ambientare le mie storie nel Chianti e nella Firenze degli anni Trenta, negli stessi luoghi abitati dai miei nonni, è stato il mio modo di ritrovarli. Scrivendo ho scoperto che quel poco che credevo di sapere non era poi così poco. Mio fratello Franco, di nove anni maggiore di me, si è meravigliato, ad esempio, dell’esattezza con cui ho fatto rivivere il carattere e i modi di mia nonna Sabina, divenuta nei miei libri la moglie di Pietro Bensi. Pietro è in gran parte ispirato a mio nonno Martino e alla sua vicenda bellica e umana, ma se ne differenzia per un elemento: la sua leonardesca intelligenza, innesto che deriva invece da un racconto di mia madre su un tale Barbetti, di San Casciano in Val di Pesa, ancora ricordato per il suo genio inventivo e le sue prodigiose macchine autocostruite.
Pietro è Martino in tante cose, Sabina è mia nonna, Serafino è il nome di un mio zio morto in guerra al quale è dedicata La rabbia del lupo, e così via. Realtà e fantasia si mescolano per consentirmi di raccontare la mia famiglia e il mondo contadino del Chianti, di indagarlo e metterlo in scena accanto alla città e alle indagini di Pietro e Vitaliano.
C’era in me la voglia di raccontare gli anni Trenta e la provincia chiantigiana, un altro modo di vivere e un altro momento storico rispetto al nostro, eppure paradigma di un’esperienza umana più ampia che potesse dire qualcosa sulla nostra condizione e sull’attualità del nostro tempo. A volte il miglior modo per dire la nostra su cosa stiamo vivendo è davvero fare un passo di lato, allontanarsi dalla tela vicinissima e guardarsi indietro per recuperare prospettiva e ampliare la visione.
Essendo due figure molto particolari e molto ben caratterizzate, le chiederei con quali parole le presenterebbe a chi ancora non le conosce.
Intanto grazie per questa domanda, che mi consente di raccontare la coppia estremamente anomala di questi due investigatori e il tipo di relazione che li lega. Chi conosce la storia sa che Pietro è ancora un giovane sposo quando gli muore, contraendo il morbillo, il suo primogenito, appena nato. Nel frattempo, il figlio del fattore della fattoria in cui lavora – una sorta di isola che esiste davvero, con la villa del conte, la casa del fattore, quella dei contadini, il podere… – si accorge di lui, della sua eccezionalità, e comincia ad andargli dietro, a fargli domande.
Potrei forse anticipare, per i vostri lettori, un pezzo del prossimo romanzo, che – ATTENZIONE! – stavolta uscirà per TEA libri, dove si racconta proprio questo: la nascita della loro relazione:
Pietro sul giaciglio duro si riscosse a metà notte destato da un sogno, o piuttosto da un incubo, aveva sognato le scarpe e Vitaliano dodicenne che lo guardava. Quelle quattro scarpe da contadino fangose le aveva riconosciute eccome, e anche lo sguardo che aveva Vitaliano aveva riconosciuto. Perché, entrambi, scarpe e sguardo, gli fossero tornati in sogno proprio quella sera, proprio lì, questo, invece, non poteva ancora saperlo, prevederlo. La testa è strana, c’ha dentro l’inconscio, come aveva detto quel Freud che aveva scovato nella libreria del conte e il cui nome lui leggeva così come si scriveva, all’italiana: F-R-E-U-D. Non che ci avesse capito granché in quel libro sull’interpretazione dei sogni, però gli era piaciuto perché lo sapeva vero, sapeva che c’era nei sogni un mondo interiore di storie, relazioni, premonizioni e avvertimenti simbolicamente intrecciati con la vita reale, un mondo dei vivi collegato con quello dei morti, dell’infanzia e dei ricordi. I morti sognati dalle vecchie tornavano ad avvertire, dare i numeri al lotto, suggerire, redarguire. I dolori subiti o i risentimenti a lungo covati esplodevano e facevano fare sciocchezze.
Stavolta però non si trattava di suo padre o sua madre, ma di due paia di scarpe e di Vitaliano, che s’era tirato appresso tutta la vita e ora era con lui su quell’isola fuori dal mondo. Se l’avesse lasciato perdere, se l’avesse scacciato quand’era bambino… tutto sarebbe stato diverso. Del resto non era figlio suo ma del fattore, il suo di figli, il suo primogenito, era morto di morbillo appena nato. Lo sentiva ancora il dolore dopo tanti anni, quella voragine scura al centro della gola che s’apriva in lui quando ci pensava. Ancora gli bruciavano gli occhi al ricordo. E i giorni seguenti, come sempre, mentre riprendeva il lavoro con una scrollata di spalle facendo finta che non fosse successo nulla di grave, perché così bisognava fare, occorreva pensare al podere e alla fattoria, fare altri figli e andare avanti. Non c’era tempo per piangere, per disperarsi, quelle erano cose da signori. Ne morivano a manciate di bambini, allora come in quei giorni del 1938, e per questo occorreva farne dieci per salvarne cinque o sei e sperare, e pregare, che diventassero grandi e una polmonite, un incidente sul lavoro, una tragedia d’amore o una guerra, non se li prendessero.
«Vattene, Vitalianino! C’ho da fare, vedi di non starmi fra i piedi!» gli aveva urlato un giorno, esasperato, e poi s’era messo a piangere accucciandosi vicino al carro. Era crollato giù, scosso dai singhiozzi. Vitaliano, allora, per niente intimorito, era corso ad abbracciarlo, l’aveva stretto forte e gli aveva sussurrato: «Pietro, non piangere, per piacere non piangere. Ci sono io! Mi dispiace tanto per il tuo bambino, per Martino…»
Da quel giorno non gli era stato più possibile scacciarlo, quel bambino curioso, pieno di domande, attratto da lui e dal suo mondo di osservare il mondo per provare a indovinare e comprendere le cose gli s’era attaccato come un angelo custode, seguendolo dappertutto, indifferente ai richiami della madre e alle sgridate del padre.
«Pietro c’ha da lavorare, lo devi lasciare tranquillo!»
«Gli devo chiedere una cosa, una cosa sola. Torno subito!»
Com’erano belle le domande di Vitaliano bambino.
«Ma come fa a volare un cervo volante, che è peso come un sasso?»
«Ma perché alle lucertole gli ricresce la coda e ai mutilati di guerra non gli ricrescono le gambe o le braccia?»
Non aveva tutte le risposte, ma gli insegnava a guardare, a capire i meccanismi dell’umano e i prodigi della natura, ed era così che aveva traviato la sua anima da poeta, da fagiano delicato, ipocondriaco e suggestionabile, inducendolo a quella scelta scellerata, che aveva sorpreso tutti: fare il poliziotto in una questura fascista.
Forse, per aver traviato senza volere quel bambino che sarebbe potuto diventare uno splendido fattore o un professore di lettere o di chimica, la punizione era questa: adesso ogni volta che provava ad aiutarlo venendo strappato dal suo quieto daffare finiva con il mettere a rischio la propria vita.
Fra Pietro e Vitaliano c’è un rapporto in divenire, di tipo discepolo-maestro, ma anche padre-figlio. Un padre putativo, perché Vitaliano se l’è scelto e, scegliendo Pietro, ha scelto l’unità di misura, il metro con il quale rapportarsi agli altri e al mondo. Sa che l’intelligenza e l’umanità di Pietro sono impossibili da eguagliare, che uomini come Pietro sono rari e ne nasce forse uno ogni secolo. Per tutto il tempo vorrebbe essere all’altezza del suo maestro, piacergli ed essere approvato da lui. Sa che Pietro gli vuole bene come a un figlio, ma anche che, se avesse la sua età, non se ne starebbe mai in una questura fascista, ma sarebbe già andato in Spagna a combattere contro Franco. Vitaliano sa che Pietro vede più lontano, sente e capisce quel che la maggior parte degli altri non sente e non capisce. Per questo chiede il suo aiuto ogni volta che le indagini si complicano. Non è un caso poi, pensandoci, che quasi ogni volta, chiedendolo, rischia di perderlo, di sacrificarlo. Molti miei libri parlano proprio di questo, della relazione fra padri e figli e della difficoltà di amarsi nella differenza. Io dico sempre che Vitaliano è un po’ come sono, come siamo un po’ tutti, e Pietro come vorrei essere. A volte vorrei saper abbracciare e consolare come Pietro, ascoltare e vedere il mondo come lui, accorgermi di chi ha bisogno e saperlo aiutare. Ma l’umanità e la fragilità di Vitaliano e la sua risolutezza improvvisa in caso di bisogno, hanno conquistato altrettanti lettori. Forse è più facile identificarsi con il commissario Draghi che con Pietro, che pure conquista e fa commuovere.
So che forse è ancora presto per parlarne, ma come sono evoluti dal 2019 a oggi? C’è stata, a suo avviso, una qualche forma di maturazione?
Entrambi i personaggi sono cambiati, andati avanti, fra scontri, avvicinamenti, recriminazioni. Anche Vitaliano è cresciuto e non è più un fagiano. Anche se qualche “fagianata”, qualche ingenuità, la commette ancora, e per Pietro rimarrà sempre il suo fagianino. Una cosa che dura da quando era ragazzino. Ecco il sogno di Vitaliano di non essere più un fagiano agli occhi di Pietro, come racconto sempre nel mio nuovo romanzo che uscirà con TEA libri:
Vitaliano aveva abbassato la testa e pensato a lungo. Poi s’era rialzato scuotendosi le mani ancora impolverate: «Andiamo!» aveva detto. «È quasi ora di desinare.»
«Sei stato bravo!» l’aveva lodato Pietro, mettendogli una mano sulla spalla.
«Allora non sono più un fagiano!»
«Non esageriamo, sei un fagiano bravo, ecco cosa!»
Il bambino gli s’era avvicinato e l’aveva colpito con un pugno al fegato reggendo la bici con l’altra.
«Ahi!»
Avevano riso spingendo le biciclette verso la fattoria, fianco a fianco.
Pietro ha attraversato momenti di rabbia in cui non riusciva a pensare, ne La rabbia del lupo. È lì che ha scoperto l’arma della meditazione da padre Giacomo, il procuratore della Certosa del Galluzzo. In Gli occhi del serpente sono venuti ai ferri corti, e Vitaliano gliene ha dette di tutti i colori. Mi piace che i personaggi vadano avanti nelle loro vite e si modifichino in base a ciò che accade intorno a loro.
Anche sul piano privato, la famiglia di Pietro si è allargata con Bianca e la sorellina. Le relazioni sentimentali dei personaggi si sono sviluppate, e perfino personaggi secondari come Ernestina e Poirot, nati inizialmente quasi come macchiette, sono venuti avanti sul palcoscenico della saga protestando e raccontando la propria storia, rivelando la propria umanità e profondità.
Il maresciallo Cuccuma, il brigadiere Parrini, Filomena non sono rimasti i Catarella della situazione – sia detto con grande rispetto per il maestro siciliano – ma hanno rivelato la loro rete di relazioni e si muovono lungo la storia.
Ne Gli occhi del serpente c’è una di quelle cose che nei romanzi io personalmente adoro: il cameo di un personaggio di un altro autore, in questo caso a me particolarmente caro. Stiamo parlando di Bruno Arcieri di Leonardo Gori. Come si è concretizzata questa collaborazione? Ci potrà essere in futuro la possibilità, magari, di una storia scritta a quattro mani?
Leonardo e Marco (Vichi), una coppia di amici e scrittori molto affiatata, sono stati una delle cose più belle che mi sono capitate entrando nel mondo dei romanzi che per semplificare, e per convenzione, definirò gialli. Accoglienti, simpatici, ironici, generosissimi, stando con loro in eventi e presentazioni mi sono sentito a volte un po’ Pinocchio fra il gatto e la volpe, ma in positivo. Io del tutto nuovo in questo mondo, come il burattino collodiano, e loro invece con una conoscenza approfondita del settore: di appassionati, librai, critici, editori, dinamiche, e sempre pronti a dare una mano e un consiglio.
Soprattutto con Leonardo ci sentiamo spesso e siamo diventati molto amici. Ci accomunano tante cose, non ultima la passione per gli anni Trenta, la grafica, l’illustrazione, i fumetti. Leonardo unisce una cultura impressionante a un’umiltà e un’umanità che fanno davvero innamorare.
Così, quando le gesta dei miei eroi sono arrivate al 1938 e ho dovuto anch’io affrontare la visita di Hitler a Firenze, non potevo certo ignorare il suo Nero di maggio. Come avrei potuto inventarmi un altro responsabile della sicurezza dei tetti e dei tiratori scelti, quando c’era già il suo Arcieri? Così scopriamo che quel giorno il suo eroe ha a che fare con due attentatori alla vita di Hitler e non solo con uno. Io e Leonardo scherziamo a volte sul fatto che Arcieri abbia delle responsabilità sul destino del mondo e il corso della Seconda Guerra Mondiale, mica da poco. Quando ho mandato a Leonardo la prima stesura della scena con Arcieri, lui ha avuto l’idea e mi ha chiesto di metterci la storia della foto, che sarebbe divenuta un assist per il suo romanzo successivo. Molto divertente, l’ho fatto più che volentieri.
Riguardo alle quattro mani, chissà. Abbiamo scritture molto diverse. Sarebbe senz’altro uno spasso, e la sua perizia storica e il mio humor, insieme alle nostre macchine narrative complesse, potrebbero creare qualcosa di molto buono, credo.
L’ho chiamato per girare a lui la domanda, e mi ha risposto: «Mai dire mai, magari!». Una risposta che sottoscrivo. Quindi, in sostanza, credo che non succederà. (Risate di sottofondo dei due autori, maledetti toscani.)
Guardando alla sua proposta narrativa, troviamo tante opere dedicate ai ragazzi, non ultimo il recente Hikikomori. Le andrebbe di parlarcene?
Hikikomori è il termine giapponese che descrive il fenomeno del ritiro sociale, emerso per primo in Giappone. Oggi anche in Italia i numeri sono impressionanti. In uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità si parla di 66.000 studenti delle scuole medie e superiori in una fase iniziale di isolamento sociale. Ma si stima che possano essere oltre 100.000; c’è chi sostiene addirittura il doppio.
Da scrittore che si rivolge a un pubblico giovane, non potevo non affrontare l’argomento con una storia ambientata proprio fra l’Italia e il Giappone. Il romanzo è, paradossalmente, prima di tutto una storia d’amore. Amore fra due giovani, ma prima di tutto amore per la vita.
A proposito di quattro mani, ho coinvolto nella scrittura di questo libro Ariela Rizzi, una mia allieva con una scrittura molto intensa e una grande conoscenza del Paese del Sol Levante. E c’è poi anche un’altra mano: quella di Elisabetta Stoinich, che ha realizzato le splendide illustrazioni.
Luca ha deciso di non uscire più dalla propria camera. Ha un piano che gli appare perfetto: evitando il contatto sociale e comunicando solo tramite internet e i social sotto nickname, nessuno potrà più ferirlo. Non soffrirà mai più.
Un giorno, però, incontra online, su una chat, una ragazza giapponese che commenta il medesimo post. Finiscono a parlarne insieme, si crea un dialogo a distanza fra l’Italia e il Giappone con Yukiko, che sembra essere l’opposto di Luca. Luca resta sveglio la notte per parlare con lei e, quando lei non chiama più né risponde ai messaggi, soffre, si preoccupa, diventa irritabile e si accorge così che il suo piano è miseramente fallito.
L’amore, come una volpe, ha scavato nella tana del topolino riportandolo nel mondo e spingendolo a traversare l’oceano per andare a cercarla. Non dirò altro, solo che il libro ha vinto quest’anno il premio Bancarellino alla presenza di una giuria di 1500 ragazzi ed è già alla terza ristampa.
Un’occasione per parlare di questo tema con i ragazzi anche in classe, vivere l’esperienza di Luca immedesimandosi e capire, senza pagare, tante cose. Non sta a me dire quali: ogni lettore ci troverà le sue risposte. Io, intanto, continuo a incontrare tanti ragazzi di ogni parte d’Italia nelle scuole, parlando con loro di Luca, Yukiko, passione, ferite, benedizioni e di molto.
Lei affronta temi importanti riuscendo a renderli fruibili anche ai ragazzi, penso a “Nemmeno con un fiore”. Parlare alle generazioni più giovani di argomenti forti è coso difficile come si sente dire mediaticamente oppure si sottovalutano le menti e le capacità dei ragazzi?
Credo i libri e le storie debbano dare fastidio, un libro che non disturba nessuno non serve a nulla. I miei libri sono un tentativo di cambiare le cose. Sono fermamente convinto che le storie possano farlo. Sono stanco di vivere in un Paese in cui ogni anno vengono uccise più di un donne da coloro che spesso dichiarano di amarle, amarle troppo per l’esattezza. C’è bisogno di parlarne, di capire il meccanismo della violenza, e Nemmeno con un fiore e gli incontri che faccio su questo libro servono proprio a questo. I ragazzi sono stupendi, appassionati e se anziché limitarsi a fargli dipingere le panchine di rosso, parliamo con loro e ragioniamo su che cos’è l’amore, scopriamo, ad esempio, che non è vero che la pensiamo tutti allo stesso modo, che alcuni nell’amore mettono la gelosia, altri no, che uno schiaffo per amore o per il tuo bene per una minoranza va bene, per la maggioranza no. E vedi ragazzini che si guardano intorno e scoprono di essere in minoranza, che nel loro lessico familiare la violenza è di casa, è confusa con l’amore e la protezione. Quel libro gli ha permesso di parlarne, l’incontro maieutica di dire la loro, li ha messi di fronte a qualcosa da elaborare, su cui riflettere. Si sono trovati in mionoranza, diversi. Mentre quando dipingevano ritualisticamente la panchina erano come tutti gli altri, contro la violenza, naturalmente. Noi abbiamo bisogno di storie disturbanti, di una scuola che si fa pensiero ed educazione emotiva. Abbiamo bisogno di lascarli rischiare questi ragazzi almeno nelle storie. C’è bisogno di vertigine, di rischiare di cadere, per poi procedere dritti. No, i ragazzi sono meglio di noi, ma li siamo proteggendo troppo e rendendo fragili nella maggior parte dei casi, perché siamo adulti spaventati. Contro questo mi spendo volentieri, incontrando insegnati e genitori, come formatore e scrittore. Scrivere storie pacifiche, di solo intrattenimento, non mi interessa. Anche la dimensione del comico, deve avere dietro della sostanza, qualcosa da dire, o tanto varrebbe tacere. No?
Nel 2011 è uscito un suo libro piccolo ma dalla storia enorme per spessore: L’autobus di Rosa. Quanta attualità si cela nel racconto di un fatto così epocale?
L’autobus di Rosa è un albo illustrato con le immagini di Maurizio Quarello e racconta la storia di Rosa Parks e del suo NO, con un punto di vista particolare: quello di un nonno che sull’autobus c’era.
Il nonno ha ceduto il posto e cercato, persino, di convincere Rosa a fare lo stesso. Insomma, la Storia era un autobus, è passato e lui l’ha perso. Non l’ha visto, non ha capito. Così, da vecchio, porta il nipote a Detroit, al museo Ford. Lo fa sedere nel posto di Rosa, sull’autobus di quella sera del 1° dicembre 1955, gli racconta tutto e gli chiede scusa.
Questo racconto è stato tradotto in tantissimi Paesi, perfino in Brasile e in Svezia, per dire. Finalista al Book Literature Prize, ha avuto tanti altri riconoscimenti sia in Italia che all’estero.
È un libro fortunato, che non lascia indifferenti, e che io porto in teatro e nelle scuole da anni. I ragazzi diventano attori, e le sedie ricostruiscono l’autobus. In base a un gioco che colpisce, stavolta, chi ha gli occhi chiari e deve cedere il posto. Questo per far capire l’arbitrarietà della discriminazione. Credo che occorra insegnare ai ragazzi a capire le dinamiche, i meccanismi sempre uguali che ci sono dietro fenomeni come la propaganda del nemico, la demonizzazione dell’altro, la discriminazione, la violenza di genere, e molto altro. Da sociologo e da scrittore mi piace far capire questo, perché altrimenti anche la Storia non serve perché apparirà ai nostri occhi sempre diversa trovandoci inermi di fronte a lei. Oggi sappiamo che non è così, per disinnescare certi meccanismi occorre farli conoscere. Il ragazzo si alza, cede il suo posto a un compagni uguale a lui solo perché ha gli occhi di un altro colore e pensa: “È vero, la pigmentazione della pelle non c’entra nulla, potrebbero essere gli occhi, la religione in cui uno crede, le sue preferenze sessuali, potrebbe essere qualsiasi cosa, siamo noi che lo stabiliamo.” Solo acquisendo distanza e uno sguardo esterno più ampio e critico può stare all’erta sulle versioni storiche del meccanismo che il futuro gli può proporre e non rimanerci invischiato. Questo a mio parere va fatto, e le storie sono un ottimo modo di farlo perché le viviamo mentre le leggiamo, e funzionano meglio di una lezione o di una predica.
Quali sono, a suo avviso, le sfide che deve porsi un autore nella comunicazione e nella lotta contro concetti che, erroneamente, credevamo passati?
Devo dire che oggi ho un grande senso di colpa quando penso ai miei figli, ai ragazzi e ai bambini. Ho 57 anni e, da quando ne avevo ventisei, vado nelle scuole. Ho iniziato portandoci gli ex internati nei lager, gli IMI italiani, raccogliendo interviste, scrivendo i loro racconti. Poi l’ho fatto con i superstiti delle stragi nazifasciste, scrivendo e raccontando storie che trattavano di ambiente, ecologia, razzismo, discriminazione e fascismo, soprattutto per paura che dimenticare potesse significare vederlo ripetersi.
Sembra retorica, me ne rendo conto, ma ho sempre avuto ben chiaro in mente il monito di Primo Levi: “O vi si sfasci la casa, la malattia vi impedisca, i vostri figli torcano il viso da voi.” È questa la frase che, sbigottito, ho ripetuto sottovoce, con la testa che mi girava, a una gentile signora italo-tedesca sposata con un tedesco. Durante la cena all’Istituto Italiano di Cultura a Francoforte, la signora si voltò verso di me e mi chiese:
«Ma perché, mi scusi, continuate ancora a raccontare certe cose? A parlarne? Sono così tristi! È passato tanto tempo, non è forse venuto il momento di dimenticare?»
C’era, nei suoi occhi e nel tono, una supplica pietosa.
Negli anni ’90 ci sono stati momenti in cui, vedendo classi di bambini di tutte le etnie giocare insieme, scuole e situazioni davvero virtuose, ho pensato anch’io che il problema fosse superato. Credevo fosse ormai una questione solo nostra, di “vecchi” spaventati, nati e vissuti nel Novecento. Non era così, e lo stiamo vedendo. Ora che i testimoni stanno venendo meno, a ottant’anni dalla fine delle Seconda Guerra Mondiale, il vaccino di ciò che è accaduto nel Novecento sta forse per scadere? È già scaduto?
Di fronte alla situazione internazionale, all’incapacità di frenare che dimostriamo facendo guerre mentre dovremmo impegnarci tutti insieme per risolvere i problemi legati al clima, all’ambiente, alla plastica. Di fronte al riemergere di retoriche del nemico e a una propaganda dell’odio e dell’esclusione che trova voce e consenso, poi, mi vergogno molto. Penso che avrei potuto fare di più. Che sono stato troppo Vitaliano e poco Pietro, per capirci.
Un giorno un collega romanziere (nessuno fra quelli citati fin qui, per inteso) mi ha chiesto perché i miei romanzi fossero così spietatamente antifascisti. Mi sembrava quasi volesse rimproverarmi per voler ricordare che durante il fascismo non era facile vivere nemmeno per i fascisti, che nessuno era al sicuro. Quegli anni, tanto rivalutati, non erano quelli dei treni in orario, ma delle lettere di delazione, del carcere e della tortura. Secondo lui, così facendo sbagliavo. Mi “giocavo” i lettori di destra. «Il fascismo», mi spiegò, «va bene, tenuto sullo sfondo, a fare colore. Anche un blando antifascismo va bene, ma non disturbante come il tuo.»
Che dire, ok, sono poco furbo. Però spero almeno di risultare sincero e nel mio piccolo di poter rendere conto senza vergogna delle mie parole, quelle dette e quelle taciute.
Sempre per rimanere nel tema della comunicazione, è inevitabile parlare dei social. Qual è il loro valore potenziale? E qual è il suo rapporto con questa realtà?
I social sono uno strumento senz’altro molto potente. Occupandomi di giovani e d’educazione percepisco bene il cambiamento antropologico che ha determinato l’avere sempre con noi un telefono, un piccolo televisore con una programmazione infinita, e la possibilità e la tentazione di rimanere sempre connessi. Personalmente sono pigro e tengo a fatica alcune pagine FB, soprattutto la mia personale. Parto con entusiasmo, poi lascio naufragare blog e pagine, colpevolmente. Non riesco mai a trovare il tempo per rimettere a posto il sito, per la cosiddetta autopromozione. A torto, forse, ma mi pare di perdere tempo prezioso quando lo faccio. Invece impiego tanto tempo, come dimostra anche questa intervista, a rispondere a mail e messaggi dai lettori, cosa che con i social è diventata facile e veloce.
In generale preferisco scrivere, camminare, disegnare, scolpire il legno o incontrare i miei lettori. Eppure è bello essere in contatto con tante persone che altrimenti vedrei solo di rado, scambiarsi saluti, vedere cosa e come si raccontano, scambiarsi pareri su quanto accade nel mondo e nel nostro settore. Durante il Covid i social sono stati fondamentali per me, per mantenere i contatti e fare incontri. So però che possono dare dipendenza, che se ci cado dentro con il piede sbagliato, se abbasso l’attenzione, mi fanno perdere tempo e qualche volta mi danno una visione del mondo che mi fa sentire poco scaltro e performante rispetto ad altri, ad esempio. È come quando facendo yoga sei tentato di guardare gli altri e rimani stranito dalla ragazza contorsionista alla tua destra. Il maestro ti ricorda che devi guardare il tuo tappetino, te stesso e la tua unicità. Insomma, i social generano in noi anche pensieri afflittivi, occorre starci attenti e non dimenticare cosa va bene per noi e ci fa star bene e cosa ci preme davvero. Personalmente mi sforzo di limitarne l’uso, ma non li demonizzo. Mi meraviglia vedere amici scrittori, illustratori, persone colte fare post e commenti su cose per me senza importanza, quando non orribili e insensate, come certi programmi della televisione. E pensare che Internet era l’occasione di avere tutto lo scibile in un clic per tutti! Io, che comperavo libri e film fondamentali perché in casa mia non c’era granché e dovevo andare in biblioteca. Io che volevo che i miei figli potessero conoscere e, invece, sono stato travolto dal web e poi dalle piattaforme di streaming. Ora, sulla carta, siamo fortunatissimi. Non dobbiamo, come Pietro, andare dal conte a chiedere in prestito un libro. Chi volete vedere stasera? Carmelo Bene, Brecht, Bergman? E invece siamo lì tutti, anche io talvolta, intendiamoci, a vedere gattini scivolare sul ghiaccio per decine di minuti della nostra vita. Magari perché siamo stanchi, o per non stare da soli con se stessi mentre aspettiamo qualcuno o qualcosa.
La solitudine, l’attesa, non esistono più. Eppure stare da soli con se stessi è la condizione umana, lo è stata per secoli. Per ritrovarla facciamo meditazione, salvo riaccendere il telefono all’uscita. Siamo esseri divertenti. Per questo cerco di mantenere un’ecologia del vivere fatta di ciò che posso toccare: legno, sgorbie, colori. Sono forse un po’ antico, ma non apocalittico. Anzi, le tecnologie mi piacciono molto, soprattutto quelle che servono per creare e disegnare e per costruire legami. Per esempio adoro poter riunire con un clic il gruppo di scrittura risparmiando decine di telefonate e scambiarmi racconti con i partecipanti.
Insomma, chi l’avrebbe mai detto che saremmo arrivati a questo? Ed è solo l’inizio, si parla di supercomputer, di intelligenza artificiale, ne avremo da vedere delle belle e sono molto curioso. Spero anche che molti problemi ambientali possano essere non solo creati ma risolti dalla tecnologia. In tutto questo, i libri sono una salvezza, un’ancora di carta. Per esempio, sapete che con un clic potete scaricare l’estratto con i primi due racconti di Charles D’Ambrosio della raccolta Il museo dei pesci morti? L’ho detto ai miei studenti l’altro giorno, e mi hanno guardato strano. Ragazzi, altro che gattini che scivolano sul ghiaccio. Strepitosi!
Recensione di Enrico Spinelli
GLI OCCHI DEL SERPENTE – Fabrizio Silei
LA RABBIA DEL LUPO Fabrizio Silei
TRAPPOLA PER VOLPI Fabrizio Silei
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