Abbiamo intervistato Beatrice Salvioni e parlato delle sue due opere “La malnata” e “La malacarne’

Abbiamo intervistato Beatrice Salvioni e parlato delle sue due opere “La malnata” e “La malacarne’

 

Intervista n. 227

 

Beatrice Salvioni (foto di Matteo Tedeschi)

 

 

Per prima cosa le chiederei di presentarci il suo secondo romanzo “La Malacarne“.

La Malacarne si apre con Francesca che scappa di casa, di notte, con i piedi nudi e addosso solo una sottoveste. Ha sedici anni e con sé una cappelliera piena di lettere. Sono tutte le lettere che ha scritto a Maddalena, rinchiusa in manicomio da quattro anni. Il padre, che aveva giurato di averle spedite, in realtà non l’ha mai fatto. Francesca, scoprendosi tradita, fugge così sconvolta da dimenticarsi di indossare le scarpe. Molto altro sta precipitando intorno a lei: siamo nel maggio del 1940, tra poco l’Italia entrerà in guerra. Francesca cerca di pensare solo a un modo per ritrovare Maddalena, farla uscire dal manicomio e mettere a tacere il resto del mondo. Ma presto, per lei come per tanti altri, toccherà scegliere da che parte stare. E capire che anche nella Storia – come dice Benedetta Tobagi nel saggio “La resistenza delle Donne” – «Tocca alle invisibili entrare in scena.»

 

 

 

Il romanzo ha dei personaggi di fantasia ma si ispira a fatti realmente accaduti. Personalmente ho sempre creduto che una simile operazione aiuti il lettore a immedesimarsi di più nelle situazioni narrate rendendole per certi versi meno distanti, condivide?

Ho sempre amato i romanzi a sfondo storico. Romanzi che scelgono di raccontare un luogo e uno spazio a noi familiari, ma che magari abbiamo solo sfiorato con la superficialità a cui spesso la scuola o gli studi costringono: un mucchio di date, battaglie importanti, nomi di chi ha fatto la Storia (considerata con la S maiuscola). Un romanzo ti permette di ritrovare quelle atmosfere già note, ma con un altro sguardo: lo sguardo di persone comuni, quotidiane. Personaggi inventati, sì, che però cercano di evocare la concretezza di donne e uomini che in quel periodo hanno vissuto, che hanno dovuto subire quella Storia raccontata nei libri di scuola. Persone considerate ininfluenti e che in realtà, la Storia la fanno davvero. La Resistenza ne è un fulgido esempio.

 

Francesca e Maddalena sono le protagoniste sin dal suo esordio con “La Malnata” e oltre a essere perfettamente caratterizzate ritengo che incarnino entrambe, in modi diversi, i concetti di libertà e di cambiamento, quasi fossero complementari, che ne pensa?

Ciò che lega Francesca e Maddalena è un archetipo di relazione che mi ha sempre intrigato nelle storie: un personaggio che si sente costretto e infelice in una vita soffocante, pieno di paure e abituato alla rinuncia, incontra un personaggio che sembra il rovescio della medaglia: impavido, senza paura, ribelle; un personaggio che diventa catalizzatore del cambiamento. Francesca e Maddalena corrispondono a questo schema. Maddalena, che indossa il proprio corpo come uno strumento per agire nel mondo e non come qualcosa di cui provare vergogna, affascina Francesca nelle prime pagine della Malnata. E così inizia il loro legame. Maddalena, che tutti chiamano la Malnata, è il catalizzatore dell’arco narrativo di Francesca. È lei a farle comprendere quanto le parole siano importanti e quanto valga la pena far sentire la propria voce. Allo stesso tempo Francesca fa scoprire a Maddalena che un nome scelto da altri per te non è una condanna, le fa capire di non essere sola. Sono inscindibili proprio perché, come i legami davvero significativi nelle nostre vite, crescono e si cambiano a vicenda.

 

 

Maddalena è nota a tutti come la “malnata”, colei che manda in malora tutti coloro che si legano a lei e sembra quasi un personaggio d’altri tempi, da “caccia alle streghe”, eppure ancora oggi tante donne ricevono trattamenti psicologicamente analoghi, possibile che con tutto il progresso e le lotte combattute si sia ancora ancorati a certi stereotipi?

Mi sono sempre piaciuti i personaggi esclusi, ostracizzati. Rosso Malpelo o La Lupa di Verga, per fare due esempi. L’esclusione sembra una condanna, ma in realtà permette di avere una lucidità spietata sulle ingiustizie, le storture di quella stessa società che allontana e accusa di non entrare in una millantata “norma.” Le streghe, le persone irregolari, sono sempre state preziose sentinelle e fari lucidissimi per portare alla luce ciò che si nasconde, ciò di cui non si parla perché scomodo. Parlare di verità. Gli stereotipi sono duri a morire perché sono confortanti. Ai regimi piace parlare di tradizione e moralità perché credono che sia un modo per far sentire al sicuro un certo tipo di persone che sono spaventate dal cambiamento e dalla diversità. Ma la storia dell’umanità è cambiamento. Uomini e donne sono in perenne trasmutazione. La paura del cambiamento e del diverso è miopia e ignoranza. I regimi promettono stabilità e sicurezza promettendo di allontanare chi è diverso, chi è “fuori dalla norma”, chi è indocile. Ma è solo propaganda cieca e appiattimento. I regimi si affidano agli stereotipi per provare a infilare le donne in ruoli precostruiti come se fossero l’unico modo “naturale” di esistere e chiamano tutto il resto “devianza.” È necessario sempre restare vigili, lottare ogni giorno contro i pregiudizi, la violenza, chi ci vuole obbedienti e sottomesse.

 

Possiamo dire che oltre la componente storica ben presente le sue due opere costituiscano un grande romanzo di formazione e non solo delle due protagoniste ma anche di figure più o meno secondarie che ruotano attorno a esse, penso al padre di Francesca per esempio?

I romanzi di formazione non passeranno mai di moda perché sono le storie che esprimono al meglio la possibilità di cambiare. Che raccontano forse il più grande passaggio di ognuna delle nostre vite che è il momento in cui ci si rende conto del peso e della responsabilità del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e il precipitare nella “vita adulta” e in qualsiasi significato le vogliamo dare. Ci saranno altri passaggi, in ogni vita, perché l’esistenza è fatta di mutazioni e trasformazioni. Ma il più forte e intenso di tutti è proprio quello del limbo dell’adolescenza. Quando decidiamo chi siamo e per la volta ci troviamo di fronte alla responsabilità di questa scelta. Ma la decisione su chi vogliamo essere o diventare può coglierci in qualsiasi momento della vita. Così è, ad esempio, per il padre di Francesca. Che da uomo abituato a scendere sempre a compromessi pur di conquistarsi una vita il più possibile comoda e sicura, restando in disparte, si trova a scegliere di intervenire e rischiare ogni cosa pur di fare ciò che in quel momento riterrà giusto. Alzando la testa, oltrepassando limiti che mai avrebbe pensato di varcare. Diventando, anche lui, un ribelle. E rivoluzionando ogni sua passata certezza o consuetudine.

 

 

 

Devo ammettere di aver apprezzato molto la figura di Noè, un uomo che a suo modo sfida la convenzioni del tempo e si dimostra amico e rifugio, una figura estremamente moderna non trova?

Amo molto il personaggio di Noè perché dimostra quando la bontà, la mitezza, siano sempre una scelta. E una scelta faticosa. Odiamo i personaggi “senza macchia e senza paura” perché fanno sembrare la bontà un’abitudine, una convenzione. Noè ci fa sentire quanto per lui la scelta della bontà sia faticosa. Eppure la compie sempre. Accetta di accogliere in casa Francesca, consapevole delle conseguenze. E non pretende nulla in cambio. Dimostra sempre protezione e pazienza. La sua paura più grande, e lo confessa anche a Francesca è: “guardarmi un giorno allo specchio e vederci dentro mio padre” che era un uomo manesco, violento. Noè ha una forte bussola morale e dimostra di saper comprendere e accettare a pieno gli altri. Quando c’è da combattere non si tira indietro. Disposto a grandi sacrifici per le persone che ama. Ed è sempre fedele a sé stesso.

 

Nel romanzo sono presenti due figure antagoniste dai tratti ben distinti, l’Orlandi apparentemente gentile ma violento e dall’altra il prefetto Attilio che si trova in mezzo alle pratiche più abiette pur avendo degli scrupoli morali, possiamo dire che il male ha molte facce?

Il male ha molte facce. Il male può essere in ognuno di noi. Il male è banale, lo diceva bene Hannah Arendt. Il male può avere gli occhi spietati e le mani veloci di un burocrate. La freddezza di un generale. Ma anche l’indifferenza di chiunque scelga di voltarsi dall’altra parte quando si trova di fronte a delle ingiustizie. È questo che rende il male pericoloso. Si infiltra anche nelle azioni più banali e quotidiane. Nelle comodità e nelle convenzioni. Nello scegliere di restare zitti e immobili quando si potrebbe intervenire.

 

Non secondaria nel libro la testimonianza di ciò che accadeva nei manicomi, una cosa che fa rabbrividire come se venisse da un’altra dimensione. Quanto poco si conosce ancora, secondo lei, del dramma vissuto dietro quelle mura?

Come tutto ciò che è scomodo, è difficile parlare di ciò che accadeva dietro le mura dei manicomi. Dove persone considerate “devianti” venivano allontanate dalla società. Spesso quelle persone erano donne che semplicemente si rifiutavano di sottostare a un canone imposto. Il saggio “Malacarne” di Annacarla Valeriano è stato essenziale per ricostruire ciò che accadeva nei manicomi durante il ventennio. Le internate venivano sottoposte a “terapie” con scariche elettriche, costrette e insulinoterapia e malarioterapia. Certo che con la febbre a 40 poi da agitate si trasformassero in tranquille. Non erano altro che lenti femminicidi.

 

 

 

La malnata“, uscito lo scorso anno, si è rivelato un romanzo di grande spessore, con una storia forte e intensa magnificamente narrata, caratteristiche che ritroviamo anche ne “La malacarne”. Quando è nata in lei la voglia e la spinta verso queste due opere e quanto lavoro è stato necessario per documentarsi e per realizzarle?

Volevo raccontare la storia di due ragazze che cercassero di far sentire la loro voce. Dopo la Malnata mi è tornata la nostalgia per Francesca e Maddalena e ho capito che avevo ancora molto da raccontare su di loro. E così “La Malnata” e “La Malacarne” sono finite per essere una duologia. Certo c’è tanta ricerca storica da fare quando si sceglie di ambientare un romanzo in un’epoca che non si è vissuta. Ma è anche una parte del lavoro emozionante e ricchissima di spunti. Sono andata alla ricerca di saggi che raccontassero la quotidianità dell’epoca, ho avuto l’aiuto di biblioteche e archivi storici compreso l’archivio del “Cittadino” giornale di Monza e Brianza, che conserva le copie degli anni ’30 e ’40. Per la parte sulla resistenza mi è stato essenziale il contributo dell’Anpi di Monza e saggi legati alla storia del territorio.

 

Se da un lato resiste ancora il passaparola per i consigli di lettura è altrettanto vero che oggi la comunicazione e il confronto passano attraverso i Social. Quanto può aiutare soprattutto gli autori emergenti e qual è il suo rapporto con questa realtà?

Un libro ormai non si vende più da solo. Autori e autrici devono accompagnarlo agli incontri e alle presentazioni, ai festival. Che sono sempre anche magnifici momenti di scambio. I social sono importanti, sì. Mi servono spesso per poter dialogare con chi ha letto i romanzi e vuole esprimere un parere o mettersi in dialogo. Questa è una ricchezza. Ma, come qualsiasi strumento, i social possono anche essere dannosi.

 

Intervista di Enrico Spinelli

 

LA MALACARNE Beatrice Salvioni

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LA MALNATA Beatrice Salvioni

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